René Girard, Il capro espiatorio (ed. orig. Le bouc émissaire, 1982).

In questo testo il noto intellettuale francese (1923-2015) approfondisce un tema che ricorre in tutta la sua opera, quella del capro espiatorio. Arriverà a sostenere che questo “meccanismo”, operante fin dalle civiltà più antiche, sia alla base del religioso o del sacro, che addirittura lo fondi.

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I concetti attorno a cui si aggira sono quelli di “mimesi” e “desiderio”. L’essere umano è un essere desiderante, ma tra il soggetto e l’oggetto desiderato si inserisce un altro soggetto che fa da modello. Secondo Girard noi desideriamo per imitazione. Il soggetto che inizialmente fa da modello diventa poi il soggetto invidiato, creando odio. Questo odio, se non attenuato, si propagherebbe in maniera incontrollabile nelle società, producendo la loro autodistruzione. Il capro espiatorio sarebbe “il meccanismo” che consente di scaricare l’odio accumulato dalla società su un unico soggetto, che viene scelto a causa di caratteristiche particolari (ad esempio difetti fisici). Come rivelato dalla religione cristiana con Gesù, l’agnello di Dio, in seguito questo soggetto, proprio per aver contribuito ad alleviare i mali della società, viene reso sacro e venerato.

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.Girard comincia la sua analisi da un testo di Guillaume de Machaut, un poeta francese del XIV secolo, che parla degli ebrei (Jugement dou Roy de Navarre): “Dopo questo sopravvenne una merda / Falsa, traditrice e rinnegata: / Giudea la svergognata, / Malvagia e sleale / Che odia il bene e ama il male / Che offrì molto oro e argento / E promise a cristiane genti / Che pozzi, fiumi e fontane / Che erano chiare e sane / In molti luoghi avvelenarono / Per cui tanti le loro vite finirono; / Poiché tutti quelli che ne usavano / Subitamente morivano. / Per cui, certo, dieci volte centomila / Ne morirono, chi in campagna, chi in città, / Prima che fosse scoperto / Questo mortale misfatto. // Ma colui che in alto siede e lontano vede / Che tutto governa e tutto provvede, / Questo tradimento può celare / Non volle, quindi lo fece manifesto / E a tutti sapere / Così che essi persero corpi e averi. / Difatti tutti gli Ebrei furono distrutti, / Impiccati gli uni, cotti gli altri, / Chi affogato, chi decapitato / Con ascia o con spada. / E tanti cristiani insieme a costoro / Vergognosamente ne morirono”.

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È un documento che testimonia una persecuzione collettiva, quella degli Ebrei durante la peste nera. Sono persecuzioni dalle risonanze collettive, violenze come la caccia alle streghe, legali nella loro forma, ma generalmente incoraggiate da un’opinione pubblica sovra-eccitata. Si svolgono di preferenza durante periodi di crisi che comportano l’indebolimento delle istituzioni esistenti e favoriscono la formazione di folle, cioè di assembramenti popolari spontanei, suscettibili di sostituirsi interamente a istituzioni indebolite o di esercitare su di esse una pressione determinante. Le circostanze che favoriscono questi fenomeni non sono sempre le stesse. A volte si tratta di cause esterne come epidemie, o siccità prolungate e inondazioni, che provocano una carestia. A volte si tratta di cause interne, discordie politiche oppure conflitti religiosi.

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Poiché la crisi è innanzitutto crisi del sociale, esiste una forte tendenza a spiegarla attraverso cause sociali e specialmente morali. Sono i rapporti umani a disgregarsi, dopo tutto, e i soggetti di tali rapporti non possono dirsi completamente estranei al fenomeno. Ma, anziché incolpare se stessi, gli individui tendono inevitabilmente a far ricadere la colpa sia sulla società nel suo insieme, il che li porta alla de-responsabilizzazione, sia su altri individui che appaiono particolarmente nocivi, per ragioni non difficili da scoprire. I sospetti sono infatti accusati di un tipo particolare di crimini.

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A prima vista i capi d’accusa sono eterogenei, ma non è difficile riconoscerne l’unità. Vi sono innanzi tutto i crimini di violenza che hanno per oggetto gli esseri verso i quali la violenza è maggiormente esecrabile – vuoi in assoluto, vuoi in rapporto all’individuo responsabile di tali crimini: il re, il padre, il simbolo dell’autorità suprema, e a volte, nelle società bibliche e moderne, anche gli esseri più deboli e disarmati, in particolare i bambini. Vi sono quindi i crimini sessuali, lo stupro, l’incesto, la bestialità. I crimini più frequentemente invocati sono sempre quelli che trasgrediscono i tabù più rigorosi vigenti in una determinata cultura. Vi sono infine alcuni crimini religiosi, come la profanazione delle ostie. Anche in tal caso sono i tabù più severi ad essere trasgrediti. Tutti questi crimini appaiono fondamentali, nel senso che attentano ai fondamenti stessi dell’ordine culturale, alle differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale. Nella sfera dell’azione individuale corrispondono dunque alle conseguenze globali di un’epidemia di peste o di un disastro analogo. Non si limitano ad allentare il legame sociale: lo distruggono alla radice.

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I persecutori finiscono sempre per convincersi che un esiguo numero di individui, persino uno solo, possa arrecare un nocumento esiziale all’intera società, a dispetto della sua debolezza apparente. È l’accusa stereotipata a legittimare e facilitare un tale convincimento svolgendo, con ogni evidenza, un ruolo di mediazione. È tale accusa a far da ponte tra la piccolezza dell’individuo e le proporzioni enormemente maggiori del corpo sociale. E se questi malfattori hanno il potere, persino diabolico, di indifferenziare l’intera comunità, è perché la colpiscono direttamente al cuore e alla testa, o perché hanno già commesso nella loro sfera individuale crimini contagiosamente indifferenziatori quali il parricidio, l’incesto, e così via.

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La folla tende sempre verso la persecuzione perché le cause naturali di ciò che la sconvolge, di ciò che la trasforma in turba, non possono interessarla. La folla, per definizione, cerca l’azione, ma non può agire sulle cause naturali. Cerca dunque una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza. I membri della folla sono sempre dei persecutori in potenza, perché sognano di purgare la comunità degli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la insidiano. Il diventare folla della folla è una cosa sola con il richiamo oscuro che la riunisce o che la mobilita, che in altre parole la trasforma in mob. È da mobile, in effetti, che viene questo termine inglese distinto da crowd, come in latino turba è distinto da vulgus.

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Le minoranze etniche e religiose tendono a polarizzare contro di sé la maggioranza. Vi è in questo un criterio di selezione vittimaria che è certo peculiare di ogni società, ma che è transculturale nel suo principio. Quasi non vi è società che non sottometta le proprie minoranze, i propri gruppi poco integrati o anche semplicemente distinti, a determinate forme di discriminazione se non di persecuzione.

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Accanto ai criteri culturali e religiosi ve ne sono di puramente fisici. La malattia, la follia, le deformità genetiche, le mutilazioni accidentali e perfino le infermità in generale tendono a polarizzare i persecutori. Non è soltanto nell’ambito fisico che si può trovare l’anormalità, bensì in tutti gli ambiti dell’esistenza e del comportamento. Vi è, ad esempio, una anormalità sociale, ed è la media in tal caso a definire la norma. Più ci si allontana dallo statuto sociale maggiormente diffuso, in un senso o nell’altro, e più aumentano i rischi di persecuzione.

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Le società mitico rituali non sono esenti dalle persecuzioni. E i documenti che dovrebbero permettere di dimostrarlo sono in nostro possesso. Sono i miti. Nel mito di Edipo, ad esempio, la peste devasta Tebe. Edipo ne sarebbe responsabile perché ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Per mettere fine all’epidemia, il responso dell’oracolo esige che si cacci via l’abominevole criminale. La finalità persecutoria è esplicita. Il parricidio e l’incesto servono apertamente da intermediari tra l’individuale e il collettivo; questi crimini sono a tal punto indifferenziatori che la loro influenza si estende per contagio all’intera società. Edipo presenta anche altri segni vittimari. Innanzi tutto l’infermità: Edipo zoppica. Questo eroe d’altronde è giunto a Tebe nella veste di uno sconosciuto, straniero di fatto se non di diritto. Infine, è figlio di re e re lui stesso, erede legittimo di Laio. Al pari di tanti altri personaggi mitici, Edipo riesce ad assommare in sé la marginalità dall’esterno e la marginalità dall’interno. Come Ulisse alla fine dell’Odissea, egli è ora straniero e mendico, ora onnipotente monarca.

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Nel mito, come in Guillaume e nei processi per stregoneria, abbiamo accuse specificatamente mitologiche: il parricidio, l’incesto, l’avvelenamento morale o fisico della comunità. Tali accuse sono caratteristiche del modo in cui le folle scatenate si immaginano le loro vittime. Sono troppi i miti che rientrano nello stesso modello perché si possa attribuirne la ripetizione a qualcosa di diverso da persecuzioni reali.

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L’espressione “capro espiatorio” designa simultaneamente l’innocenza delle vittime, la polarizzazione collettiva contro di esse, e la finalità collettiva di questa polarizzazione. Che cose simili accadano, soprattutto nella nostra epoca, è possibile, ma non accadrebbero neppure oggi se gli eventuali manipolatori non avessero a loro disposizione, per mettere a segno le loro trame, una massa spiccatamente manipolabile, ossia gente pronta a lasciarsi rinchiudere nel sistema della rappresentazione persecutoria, gente capace di credere a un capro espiatorio. L’esistenza di questa condizione di prigionia ci autorizza a parlare di un inconscio persecutorio, e la prova di essa sta nel fatto che oggi anche i più abili a scoprire i capri espiatori degli altri, e Dio sa se siamo diventati maestri in quest’arte, non ne scoprono mai in se medesimi.

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Al di là di una certa soglia di credenza, l’effetto di capro espiatorio inverte totalmente i rapporti tra i persecutori e la loro vittima, ed è proprio questa inversione a produrre il sacro, gli antenati fondatori e le divinità. Essa fa della vittima, in realtà passiva, l’unica causa agente e onnipotente di fronte a un gruppo che si ritiene completamente manipolato. Se i gruppi umani possono ammalarsi in quanto gruppi per ragioni dipendenti o da cause oggettive o soltanto da se stessi, se i rapporti in seno ai gruppi possono deteriorarsi e poi ristabilirsi grazie alle vittime unanimemente esercitate, è evidente che i gruppi rievocheranno questi mali sociali in conformità alla credenza illusoria che ne facilita la guarigione: la credenza nell’onnipotenza dei capri espiatori. Ne consegue che all’esecrazione unanime di chi causa la malattia deve sovrapporsi la venerazione unanime per il guaritore di questa stessa malattia. Se questa vittima può elargire anche dopo la morte i suoi doni a coloro che l’hanno uccisa, è perché essa è resuscitata, oppure perché non era veramente morta. La causalità del capro espiatorio si impone con tale forza che neanche la morte è in grado di fermarla. Per non rinunciare alla vittima in quanto causa, essa la resuscita se occorre, la rende immortale, almeno per un certo periodo, inventa tutto ciò che noi chiamiamo trascendente e soprannaturale.

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I miti più difficili la tesi di Girard, almeno in apparenza, sono quelli che negano l’assassinio collettivo. Un modo di negare questa pertinenza consiste nell’affermare che le vittime sono sì effettivamente morte, ma dandosi la morte volontariamente. Del resto la volontà di cancellare le rappresentazioni della violenza governa l’evoluzione della mitologia. Per rendersene ben conto è necessario seguire questo processo al di là della tappa che ho appena definito. In questa prima tappa è in gioco soltanto la violenza collettiva; ogni volta che scompare, come abbiamo visto, le viene sostituita una violenza individuale. C’è poi una seconda tappa, in particolare nell’universo greco e romano, che consiste nel sopprimere persino la violenza individuale; ogni forma di violenza appare ormai insopportabile nella mitologia. Coloro che superano questa tappa, lo sappiano o no – e nella maggior parte dei casi, sembra proprio che non lo sappiano -, perseguono tutti un solo e identico scopo: l’eliminazione delle ultime tracce dell’assassinio collettivo, l’eliminazione di ogni traccia di queste tracce, se così possiamo esprimerci. Alcune fonti suggeriscono, ad esempio, che Zarathustra morì assassinato dai membri, travestiti da lupi, di una quelle associazioni rituali di cui egli aveva combattuto la violenza sacrificale, una violenza che ha anche qui il carattere collettivo e unanime dell’assassinio fondatore che essa ripete. In margine alle biografie ufficiali, esiste spesso una tradizione più o meno “esoterica” dell’assassinio collettivo.

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Sono i Vangeli a svelare i meccanismo dell’ingranaggio persecutorio. I persecutori credono sempre nell’eccellenza della loro causa, ma in realtà odiano senza causa. E l’assenza di causa nell’accusa (ad causam) è esattamente ciò che i persecutori non vedono mai. Bisogna dunque prendersela con questa illusione, se vogliamo liberare tutti questi infelici dalla loro prigione invisibile, dall’oscuro sotterraneo dove languiscono, e che sembra loro il più splendido dei palazzi.

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Pilato è quello che detiene veramente il potere, ma al di sopra di lui vi è la folla che, una volta mobilitata, ha il primato assoluto, trascina con sé le istituzioni, le costringe a dissolversi entro la sua massa. Ma la nozione di inconscio appartiene ai Vangeli? La parola non c’è, ma l’intelligenza moderna non faticherebbe a riconoscerne subito la presenza se dinanzi a questo testo non restasse paralizzata e legata a fili invisibili della religiosità e irreligiosità tradizionali. La frase che definisce l’inconscio persecutorio appare nel cuore stesso del racconto della passione, nel Vangelo di Luca, ed è il celebre: “Padre mio, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc, 23, 34). Tutto è perfettamente esplicito. Gesù è continuamente ricollegato, e si ricollega egli stesso, a tutti i capri espiatori dell’Antico Testamento, a tutti i profeti assassinati o perseguitati dalle loro comunità, Abele, Giuseppe, Mosé, il servo di Yahvè, ecc. Che egli sia così designato da altri o da se stesso, è sempre il suo ruolo di vittima, misconosciuta in quanto innocente, a ispirare tale designazione. Egli è la pietra scartata dai costruttori che diventerà la pietra angolare.

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Abbiamo dunque due tipi di testi, che hanno entrambi un rapporto con il “capro espiatorio”. Essi ci parlano di vittime, magli uni non dicono che la vittima è un capro espiatorio e ci obbligano a dirlo al loro posto: ad esempio Guillaume de Machaut e i testi mitologici; gli altri dicono esplicitamente che la vittima è un capro espiatorio: i Vangeli.

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