Gianfranco Mormino, René Girard. Il confronto con l’Altro (2012)

Girard (1923-2015) è stato un singolare non-filosofo che ha scritto di letteratura, psicologia, antropologia, sociologia, religione e politica.

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Oltre a “Mensonge romantique” altri due libri di larghissima diffusione: “La violence et le sacré” del 1972 e “Des choses cachéès depui la fondation du monde” del 1978, divenuti dei classici del pensiero contemporaneo.

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La proposta di Girard, che si impernia su un nucleo di temi forti costituito dalle teorie del desiderio mimetico e della vittima espiatoria, fornisce alle discipline dell’uomo una sistemazione unitaria fondata su pochi semplici presupposti.

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Il presente studio intende illustrare la parabola teorica girardiana nella sua ormai consueta articolazione in tre fasi, oggetto delle quali sono rispettivamente: la scoperta della natura mimetica, interindividuale e rivalitaria del desiderio (dagli inizi sino a “La violenza e il sacro”); l’individuazione del meccanismo vittimario come sorgente del sacro (da “La violenza e il sacro fino alla prima parte de “Delle cose nascoste”); e infine l’interpretazione del messaggio giudaico-cristiano come rivelazione delle suddette verità antropologiche, rifiuto di ogni suggestione di massa ed esortazione ad reindirizzare l’imitazione verso modelli non-violenti (dalla seconda parte di “Delle cose nascoste” in poi).

PARTE PRIMA: LE LEGGI DEL DESIDERIO (1953-1972)

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“L’identificazione è per la psicoanalisi la prima manifestazione di un legame emotivo con un’altra persona (…). (Essa) tende a foggiare il proprio Io alla stregua di quello assunto come “modello”.

Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in “Il disagio della civiltà e altri saggi”.

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Con il volume “Menzogna romantica e verità romanzesca”, scritto alla fine degli anni Cinquanta e pubblicato nel 1961, Girard getta, nell’ambito della critica letteraria e della psicologia, le fondamenta di una teoria che, nei decenni successivi, si estenderà alle scienze umane nel loro complesso; il saggio, che presenta un’analisi comparata di alcune opere di cinque grandi romanzieri europei moderni (Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij, Proust), è connotato innanzitutto dal rifiuto del precetto critico secondo cui ciò che è propriamente grande, in uno scrittore, è ciò che lo differenzia da ogni altro. Anziché soffermarsi sulle peculiarità di ciascun autore, Girard intende piuttosto mettere in risalto i tratti che li accomunano e che delineano una precisa ipotesi sulla natura delle relazioni umane, attinta solo dai grandissimi; attraverso l’analisi letteraria comparata egli intende indagare il funzionamento della psiche e, in particolare, i meccanismi del desiderio, soppiantando le teorie filosofiche e psicologiche cimentatesi con il medesimo problema.

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La verità alla quale Girard si riferisce nel titolo dell’opera riguarda in primo luogo “le manovre fondamentali e le astuzie del desiderio mimetico”, ovvero i triangoli prodotti dall’infatuazione amorosa, per estendersi poi a tutte le forme di relazione interpersonale dominate dall’ossessione per l’Altro (invidia, gelosia, rivalità).

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La struttura comune che Girard individua nelle opere esaminate consiste in tre aspetti fondamentali: la scoperta della natura mimetica del desiderio, la distinzione tra mediazione interna e mediazione esterna, il ruolo capitale della conversione nella genesi dei romanzi autenticamente rivelatori. A occultare queste verità è soprattutto quella che Girard definisce “ideologia romantica”, secondo la quale esisterebbero desideri spontanei, che nascono nel soggetto senza bisogno di essere fecondati dall’imitazione di un mediatore; con il termine “romantico” Girard individua qui il primo bersaglio della sua polemica culturale, che si estenderà in seguito a gran parte delle correnti della modernità. Si tratta ancora di un oggetto non del tutto precisato, nel quale egli comprende in primo luogo il mito dell’individuo desiderante in piena autonomia.

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Altri bersagli – il marxismo, la psicoanalisi, lo strutturalismo – si aggiungeranno a questa lista, segnando una sempre più marcata autodefinizione del pensiero di Girard come corpo estraneo al complesso delle teorie dell’uomo del XX secolo.

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Nei romanzi moderni individuati da Girard ogni desiderio è originato dal rapporto con l’Altro, ogni desiderio è imitazione del desiderio di un Altro, il modello, al quale Girard impone il nome di mediatore. È questa l’intuizione dalla quale nasce l’intera teoria mimetica, che intende svelare il secolare autoinganno costituito dall’idea della spontaneità della vita affettiva; inganno che solo la letteratura autenticamente grande ha saputo cogliere, non solo denunciandone il ridicolo o la vacuità nel cavaliere della Macha, in Emma Bovary e nei vanitosi stendhaliani, ma indicando anche come unica possibile via d’uscita di tale scacco esistenziale la rinuncia a ogni desiderio che solo l’Imitatio Christi, contrapposta all’imitazione di un mediatore umano, può offrire.

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Desiderio metafisico: il suo carattere ontologico, o metafisico, dipende dal fatto che esso è desiderio di “essere ciò che diviene l’altro quando possiede quell’oggetto”.

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Il soggetto che desidera secondo la mediazione esterna non conosce tormenti così intensi come quelli nascono dalla mediazione interna, dal momento che non vede nell’irraggiungibile modello un ostacolo al perseguimento dei propri fini: la distanza raffredda i rapporti del mediatore con il soggetto, il quale può persino dichiararsi apertamente imitatore senza sentirsi sminuito da tale condizione. Totalmente diversa è, almeno in “Menzogna romantica”, la situazione nella mediazione interna: se il soggetto e il mediatore possono contendersi l’oggetto, la loro rivalità è inevitabile. Proclamarsi imitatore di un proprio pari è del tutto inaccettabile per chi è dominato dall’orgoglio, così che l’unica strategia possibile è la negazione del legame mimetico, ovvero la finzione di un desiderio spontaneo, scaturente solo dalla propria sovrana soggettività. L’esistenza del modello è negata ma esso diventa l’ossessione del soggetto, che finisce dal far dipendere da lui tutta la propria condotta.

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Lo svelamento della presenza del mediatore e del suo ruolo decisivo nella formazione del desiderio è appunto ciò che qualifica un’opera letteraria come romanzesca, mentre l’opera romantica inventa e prolunga l’autoinganno soggettivista.

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Una delle caratteristiche più rilevanti della mimesi è per Girard il suo carattere contagioso: persino nel caso della mediazione esterna la malattia si estende agli spettatori, che vengono risucchiati nel vortice di un processo dal quale nessuno resta immune. Coloro i quali cercano di guarire Don Chisciotte dalla sua pazzia finiscono per caderne vittime essi stessi; la vertigine di cui divengono preda li avvicina al malato, fino a creare una situazione di mediazione interna. Il contagio colpisce per primo proprio il mediatore, nel quale non abbiamo motivo di supporre alcuna autentica spontaneità nella scelta dell’oggetto. Anch’egli, infatti, desidera per imitazione, come il proprio emulo, e anch’egli conosce un rinforzo del proprio desiderio come effetto dello spettacolo offertogli dal rivale: “ogni individuo può diventare il mediatore del suo prossimo senza essere consapevole della funzione che va svolgendo. Mediatore senza saperlo, tale individuo è forse a sua volta incapace di desiderare spontaneamente. Sarà dunque tentato di copiare la copia del proprio desiderio. Ciò che in origine era in lui semplice capriccio finisce per trasformarsi in violenta passione”.

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Il triangolo si duplica e le potenzialità del processo, che costituirà uno degli snodi teorici fondamentali del Girard antropologo ne “La violenza e il sacro” vengono qui investigate per la prima volta. La doppia mediazione è sempre negativa: “quanto più intenso è l’odio, tanto più ci avvicina al detestato rivale. Tutto quel che suggerisce all’uno, lo suggerisce pure all’altro, ivi compreso il desiderio di distinguersi ad ogni costo. I fratelli nemici imboccano sempre le stesse strade con loro somma stizza”. Abbiamo qui l’anticipazione della teoria dei doppi, che tanta parte giocherà nella spiegazione girardiana della genesi della crisi dalla quale nascono, e nella quale periodicamente tornano a dissolversi, le società.

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Il corollario inevitabile del punto di vista romantico è il manicheismo: la cecità verso se stessi è “un’arma contro gli altri”, mentre l’artista che raggiunge il superiore punto di vista romanzesco “supera il desiderio metafisico e scopre, nel mediatore che lo affascinava, un proprio simile. La riconciliazione romanzesca permette, tra l’altro e l’io, tra osservazione e introspezione, una sintesi che è impossibile alla rivolta romantica”. Il metodo critico “esistenziale” di Girard si manifesta nel modo più chiaro nell’analisi della riconciliazione romanzesca; prima ancora dell’eroe è il romanziere a superare lo stadio della menzogna manichea, a vedere in se stesso le tracce del desiderio metafisico: “il Cervantes geniale è un Don Chisciotte ravvedutosi dei suoi desideri, un don Chisciotte capace di percepire la bacinella da barbiere senza dimenticare che un tempo vi scorgeva l’elmo di Mambrino”.

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“Il punto di partenza del pensiero girardiano è un Soggetto il cui rapporto più originario con l’oggetto passa per la mediazione di un Altro. Questo rapporto primitivo non è una “relazione d’oggetto” indeterminata, come accade nella filosofia tradizionale, esso si definisce fin da principio come desiderio. Dove la filosofia classica (…) tende sempre a una presa cognitiva dell’oggetto, la riflessione girardiana pone l’oggetto in un modo allo stesso tempo meno determinato e più strutturato: l’oggetto è dapprima desiderato come oggetto-del-desiderio-dell’-altro. La coscienza del Soggetto coglie senza dubbio l’oggetto come in-sé ma l’essenza del rapporto è nella mediazione”.

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Negli anni Sessanta Girard mira alla costruzione di un vero e proprio “sistema del desiderio” di portata universale.

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Tale ampliamento concettuale si articola lungo almeno quattro direttrici, che costituiscono altrettanti luoghi di ulteriore elaborazione teorica da parte di Girard.

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1. Innanzitutto egli fa piena chiarezza sul concetto di mimesi, riguardante la natura mimetica delle interazioni sociali.

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2. In secondo luogo la teoria mimetica matura è molto più che la chiave di lettura della psicologia amorosa e ha come principale oggetto i comportamenti violenti. Il paradosso della “conflittualità mimetica”, ossia l’inevitabile sorgere della rivalità dalla stessa dinamica che avvicina gli uomini;

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3. In terzo luogo il mimetismo viene radicato da Girard nella natura stessa dell’uomo: la “situazione umana fondamentale” è quella del discepolo, ossia dell’imitatore suo malgrado.

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4. L’evoluzione della teoria mimetica, infine, va nella direzione di una comprensione dei comportamenti collettivi, sulle tracce del Freud di Totem e tabù e di Psicologia delle masse e analisi dell’Io (ma sovvertendone in modo profondo gli schemi esplicativi).

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L’Edipo freudiano non sarebbe che un caso particolare della rivalità mimetica.

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Ne La violenza e il sacro, rispetto a Menzogna romantica, è in assoluta evidenza l’aspetto che nell’opera del 1961 rimaneva ancora in secondo piano: ciò che gli uomini imitano più di ogni altra cosa è la violenza. All’imitazione del desiderio amoroso si affianca oramai la ben più potente ed essenziale violenza mimetica, il cui campo d’applicazione non ha alcun limite, estendendosi a ogni epoca e a ogni contesto sociale.

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Il mito individua alla fine un unico colpevole ma la simmetria tra i protagonisti, così meticolosamente sottolineata da Sofocle, indica una verità differente: la violenza è sempre reciproca e l’asimmetria – ovvero la presunta verità del mito, che ci presenta un Edipo parricida e incestuoso – è solo il risultato dell’assunzione del punto di vista del più forte, di chi è riuscito a inchiodare il doppio rivale nella posizione minoritaria.

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Il mito di Edipo consente a Girard di cogliere con uno sguardo unitario il processo che inizia con la violenza ingenerata dalla mimesi, sfocia nella crisi dei doppi e termina con l’espulsione di un “colpevole” che in realtà è tale solo nel giudizio unanime della società.

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Il quadro così delineato è messo alla prova ne La violenza e il sacro e in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo nel confronto con molteplici altri riti e miti, che spingono Girard ad affermare di avere scoperto una verità antropologica universale nella tendenza delle collettività a liberarsi dai mali sociali con la messa a morte di una vittima scelta non perché colpevole ma perché vulnerabile.

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PARTE SECONDA: I MECCANISMI DELLA MIMESI COLLETTIVA (1972-78)

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La riflessione antropologica di Girard è interamente imperniata sulla violenza ingenerata dal conflitto tra i doppi mimetici; un unico e semplice meccanismo psicologico porta gli uomini prima a far convergere i loro desideri sui medesimi oggetti, poi a rivaleggiare tra di loro, perdendo di vista, in ultima istanza, l’oggetto che aveva innescato la contesa.

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Se nelle fasi iniziali del conflitto i beni concreti possono ancora giocare un ruolo, successivamente la violenza brucia ogni residuo di desiderio oggettuale e diviene fine a se stessa, elementare furore rivalitario; il fenomeno è manifesto ne Le baccanti, la tragedia di Euripide.

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Nella terminologia girardiana: la mimesi “appropriativa” si trasforma in “mimesi dell’antagonista”, nella quale più individui convergono non su un oggetto desiderato ma “su un identico avversario che vogliono tutti abbattere” (“Delle cose nascoste…”); contro la critica al suo preteso atteggiamento anti-oggettuale Girard precisa che “l’oggetto scompare solo durante l’escalation della crisi mimetica; altrimenti è sempre presente”.

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Se la violenza gioca un ruolo così ampio in tutta la riflessione di Girard, è perché la sua concezione del desiderio lo porta a ritenere inevitabile lo scontro tra soggetto e mediatore; non vi è garanzia di risoluzione pacifica dello scontro tra due soggetti desideranti, anzi la rivalità tende sempre a contagiare altri uomini, fino a coinvolgere potenzialmente l’intera società. Concezione radicalmente pessimistica, la sua, e per questo spesso criticata, al punto che più voci si sono levate a sostenere la possibilità di una differente e più positiva valutazione dell’imitazione; (in nota: Da una prospettiva differente il tema è stato considerato, alla luce della scoperta dei neuroni specchio, da Vittorio Gallese: “la nostra costitutiva apertura agli altri, della quale la mimesi è una delle espressioni principali, può essere declinata sia in termini di violenza sociale sia di cooperazione sociale” (Gallese, The two sides of mimesis)). Girard, in realtà, non ha mai negato che la mimesi sia anche il fondamento di ogni apprendimento e che possiede, perciò, una direzione positiva che corre parallela a quella conflittuale, né che possano esistere forme di rapporto esenti dal contagio mimetico. Ma la storia mostra che gli uomini sono costantemente attraversati da passioni e conflitti che intaccano ogni relazione, da quelle tra gruppi separati a quelle tra figli, genitori e fratelli; è l’uomo l’unico animale che ha saputo inventare la guerra e che ha dovuto darsi innumerevoli divieti per scampare all’autodistruzione. Non è solo lo spettacolo della storia come mattatoio a fornire valide ragioni al pessimismo girardiano: la violenza e la vendetta dominano le narrazioni letterarie e religiose di tutte le civiltà, in particolare i miti con i quali ogni gruppo umano definisce le proprie origini e il proprio ruolo nel mondo.Il fascino invincibile esercitato da tali racconti e il piacere che gli uomini ne traggono suggeriscono l’ipotesi che abbiamo a che fare con qualcosa che non riguarda solo la psiche individuale ma che proviene dal remoto sfondo collettivo dal quale ha preso avvio la vita di ogni comunità. Ne La violenza e il sacro egli mostra come tutto ciò che di positivo l’uomo ha edificato possa essere spiegato solo a partire dal gioco delle violenze contrapposte e dal loro contenimento, anch’esso sanguinoso; la pace familiare e sociale, l’apprendimento fruttuoso, le forme più virtuose della vita umana possono trovare spazio solo dopo la fondazione di un ordine sociale, che scaturisce sempre dal trionfo cruento sul disordine che lo ha preceduto. Il repertorio mitografico conferma l’intuizione hobbesiana secondo cui la pace non è che la sospensione della guerra, quest’ultimo essendo il dato originario a partire dal quale la prima può essere spiegata; le teorie filosofiche che pongono la razionalità a fondamento della convivenza umana non sono per Girard che finzioni tendenti a cancellare le tracce di una violenza che i miti, sia pure – come vedremo – in forma alterata, continuano a ricordarci. L’antropologia girardiana prospetta dunque una visione della cultura umana che ha le sue radici nelle più pessimistiche riflessioni di Lucrezio, Hobbes e Spinoza sull’origine della società e della religione, passate al vaglio dal pensiero di Darwin, Durkheim e Freud e con l’aggiunta decisiva di un ampio scandaglio della letteratura mitologica, nella quale la derivazione delle istituzioni socioreligiose da scoppi di mimetismo violento è provata dalla convergenza di molteplici narrazioni indipendenti.

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La violenza ha la proprietà di comunicarsi da un uomo all’altro come una malattia, e le religioni possono essere intese come insiemi di normi profilattiche contro l’estensione del contagio malefico costituito dal sangue impuro versato da uomini adirati.

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Dal desiderio violento Girard riceverà in seguito l’intero processo di organizzazione, che inizia con un potenziamento dell’aggressività dovuto all’accresciuta capacità mimetica del cervello umano e termina con la scoperta di un meccanismo capace di arrestarla e di consentire ai nostri più lontani antenati di vivere in uno stato di pace, sia pure precario; tale meccanismo, come vedremo più avanti, è l’uccisione unanime di una vittima indifesa.

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Il problema a partire dal quale Girard intraprende l’ambizioso tentativo di decifrare l’origine e la funzione del religioso è quello del sacrificio, che sembra essere l’istituzione centrale di tutte le società arcaiche e la cui essenza costituisce un enigma impenetrabile, invano investigato sin dai tempi di Tylor e Robertson Smith. Egli respinge come dettata dalla “pietà dell’umanesimo classico” ogni lettura estetica o simbolica del fenomeno, per riportarlo alla sua natura concreta di assassinio.

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L’analisi del sacrificio consente a Girard di gettare luce su molteplici altri fenomeni anch’essi universalmente diffusi, quali la domesticazione animale, la caccia collettiva, l’agricoltura, i giochi, il sistema giudiziario, le regole matrimoniali e le strutture della parentela, la regalità, il teatro, la medicina rituale e la guerra, al punto che l’intera civiltà può essere definita come un unico sistema sacrificale.

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La vera funzione del sacrificio consisterebbe nel fare da sfogo alla violenza, incanalandola verso oggetti innocui, capaci di appagarla senza danno per la collettività. Si spiega così agevolmente l’ambivalenza del sacrificio, operazione violenta ma capace di regolare la violenza; la sua funzione è preventiva, nella misura in cui esso storna una violenza più grave per mezzo di un atto controllato e dalle conseguenze prevedibili.

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Benché ovviamente la divinità non giochi, in questo meccanismo, alcun ruolo reale, la sua costante evocazione da parte dei sacrificatori non può essere ignorata. La soluzione di Girard consiste nel ritenere il sacrificio un atto fondato sul misconoscimento della sua funzione da parte di coloro che lo praticano: “si presuppone sia il dio a reclamare le vittime; in teoria è lui il solo a godere del fumo degli olocausti; è lui ad esigere la carne ammucchiata sui suoi altari. È per placare la sua collera che si moltiplicano i sacrifici”. La teologia del sacrificio, ossia l’attribuzione della violenza a una divinità, si rivela elemento essenziale per la pacificazione sociale, in quanto consente di distinguere radicalmente la violenza rituale da quella comune; all’immolazione viene attribuita una natura sacra, ossia (in linea con l’interpretazione durkheimiana) del tutto separata da quella della vita di tutti i giorni: il sangue versato ritualmente purifica il sangue impuro delle disordinate rivalità umane, offrendo loro uno sfogo relativamente innocuo.

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Tra le vittime umane immolate nei sacrifici documentati in epoca arcaica e presso i popoli primitivi, osserva Girard, “ci sono i prigionieri di guerra, ci sono gli schiavi, ci sono i fanciulli e gli adolescenti non sposati, ci sono gli individui minorati, e i rifiuti delle società come il pharmakos greco. In certe società, infine, c’è il re; tutte queste categorie hanno in comune un’assai labile appartenenza alla società. Anche il re, sia pure per la paradossale ragione che è situato troppo in alto, è in qualche modo isolato dagli altri membri del gruppo, “un vero e proprio fuoricasta”.

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Potentissima come movente individuale, la vendetta è decisiva sulla scena sociale, dove costituisce il catalizzatore delle più distruttive azioni di massa. Se si valuta realisticamente il pericolo presentato dalla spirale delle faide, si comprende finalmente cosa garantisca l’efficacia del sacrificio: esso è “una violenza senza rischio di vendette”. Le vittime sacrificabili hanno con la comunità un rapporto di non completa appartenenza, in virtù del quale “si (può) ricorrere alla violenza contro un individuo senza esporsi alle rappresaglie di altri individui, i parenti, che si sentono in dovere di vendicare il loro congiunto”.

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Un adeguato esame della vendetta deve partire dalla considerazione che ogni civiltà si fonda su un’efficace prevenzione e repressione di tale forza. Detto in altro modo: ogni società che sia riuscita a sopravvivere ha trovato dei meccanismo di regolazione delle vendette, benché nessuna abbia saputo estirparle del tutto. La teoria di Girard fornisce un quadro entro cui situare le varie teorie della vendetta e un criterio di classificazione delle posizioni via via presentatesi.

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Una società grande e forte, lontana dal rischio di faide o guerre civili, potrà certo permettersi un minore controllo sulla pulsione di vendetta, lasciando più ampio gioco alle passioni individuali, in virtù delle capacità del sistema di porre un punto fermo, quando necessario, al suo dilagare; ma nelle situazioni di minor coesione sociale o di debolezza (ad esempio nelle società con un piccolo numero di membri, nelle quali l’esplosione dei conflitti può facilmente coinvolgere la totalità del gruppo) dovrà intervenire l’interdizione assoluta, figlia del timore di contrapposizioni incontrollabili. Proprio questa è la condizione in cui si trovano i primi gruppi umani, per i quali l’istituzione del sacrificio è, secondo Girard, l’unica alternativa possibile all’autodissoluzione.

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Il sacrificio è la riproduzione controllata di un evento che ha avuto successo e che viene perciò meticolosamente fatto rivivere nella speranza che ne segua il medesimo effetto positivo di pacificazione.

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Si comprende così la funzione della vittima espiatoria, la quale, come il capro del Levitico dal quale è mutato il termine, porta via con sé, nel deserto o nella morte, non i peccati ma piuttosto i desideri convergenti e gli odi dell’intera comunità.

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La fondamentale sequenza strutturale che Girard individua, e della quale ribadisce il carattere assolutamente reale, è la seguente: all’inizio vi è una perdita delle differenze che ingenera rivalità circoscritte; segue un’espansione del conflitto all’intera comunità; infine vi è l’individuazione di un colpevole unico della crisi, che viene ucciso dalla comunità nel suo insieme e con il cui linciaggio la crisi si placa. L’ipotesi che l’intera comunità partecipi all’uccisione è fondata sulla considerazione che questa è l’unica modalità capace di spiegare la cessazione delle vendette. Nulla impedisce che le vittime siano più d’una; fondamentale, in ogni caso, è che la loro capacità di resistere sia interamente annientata. Se Girard insiste sull’unicità della vittima è perché tale sembra essere l’indicazione convergente dei molti riti che egli esamina e che costituiscono la prova più convincente della sua ipotesi. Il segreto dell’omicidio fondatore, replicato poi nel sacrificio rituale, è il tutti contro uno, che consente di superare ogni divisione all’interno della comunità. L’ascendenza durkheimiana del ragionamento di Girard è, anche qui, manifesta: è sempre la società nel suo complesso ad agire. Non si deve però pensare che le sue azioni siano guidate da un disegno o da una consapevolezza degli esiti che si produrranno. Il motore dell’intero processo è la violenza mimetica, che domina gli uomini a loro insaputa. Come per ogni proprietà funzionale alla sopravvivenza, l’origine è accidentale e la perpetuazione risponde a una logica evoluzionistica, operante a livello di gruppo. L’uccisione unanime viene replicata perché funziona e la sua universalità dipende unicamente dal fatto che solo le società nelle quali si è verificata sono state in grado di sopravvivere e di lasciare testimonianza di sé.

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La teoria dell’omicidio fondatore, della quale abbiamo visto finora solo il primo momento, è il cuore della scienza della società fondata da Girard; essa tenta di spiegare in modo interamente razionale non solo come gli uomini riescano a sopravvivere all’eccesso di violenza intraspecifica che caratterizza l’umanità ma anche, come vedremo ora, perché questa soluzione assume sempre i tratti di una religione, ossia perché produca la credenza collettiva in un sacro malefico e benefico a un tempo. Anche in questa sua seconda fase il processo è ricostruito da Girard in opposizione a tutte le teorie che pongono a fondamento delle istituzioni un’azione consapevole, che sia un patto, la saggezza di un legislatore o l’accorta manovra di una elite politico-sacerdotale: le dinamiche che conducono all’uccisione unanime di una vittima incapace di vendicarsi e alla sua successiva divinizzazione sono da intendersi come un “meccanismo” e il termine non deve essere preso alla leggera. Girard sgombra il campo dall’idea di una fondazione volontaristica delle società umane; gli uomini precipitano in una crisi rigorosamente determinata dalla struttura delle loro relazioni, che non è in loro potere dominare. A condurre il gioco è sempre la violenza, da intendersi come lo sbocco necessario della natura ipermimetica dell’uomo.

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L’improvvisa e insperata pace che segue il linciaggio non può che colpire nella maniera più profonda il gruppo dei sopravvissuti: al transfert negativo – l’addossamento di tutte le colpe a uno solo – segue un transfert positivo, in virtù del quale la vittima viene considerata autrice, con la propria morte, della ritrovata coesione della comunità. Tanto la violenza della crisi quanto la pace successiva dell’omicidio collettivo vengono ascritte all’azione di una forza superiore ed esterna al gruppo, la vittima stessa, “senza dubbio scampata alla morte” e dunque trasformata in dio.

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Il sacro, potremmo sintetizzare, è la violenza collettiva percepita in modo allucinatorio e resa così esterna ai suoi reali attori; ma, per quanto frutto di un doppio delirio, esso possiede un’incomparabile potenza catartica, che ha garantito concretissimi vantaggi ai popoli che l’hanno creato.

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In Girard il mito si definisce come il tentativo di istituire una differenza assoluta, quindi di leggere i conflitti introducendovi a posteriori gli elementi che ne hanno consentito la soluzione. L’accusa mitica per eccellenza, quella che riassume tutte le altre, è il “malocchio”, grazie al quale a un individuo può essere addossato senza prova qualsiasi colpa. La capacità di tale accusa di annientare un individuo, senza lasciargli possibilità di difesa, è massima, dal momento che il maleficio può essere esercitato anche involontariamente. Qualunque peculiarità può spiegare il possesso di capacità iettatorie: per designare negativamente un individuo è sufficiente una minorità fisica o qualsiasi altra nota che lo distingua in modo evidente dal resto della comunità. La tendenza a creare uno “zimbello”, a perseguitare – anche “solo” con il disprezzo o la derisione – chiunque possieda qualche caratteristica notevole, in qualunque modo connotata, è del resto visibile nelle nostre società in modo chiarissimo, nei bambini come negli adulti. L’accusa di malocchio, scrive Girard, è stata interpretata ora razionalisticamente (la “superstizione” che spiega sempre tutto…), ora esteticamente (come prodotto dell’immaginazione poetica), ora psicoanaliticamente (come “simbolo di un inconscio individuale o collettivo”); egli intende invece ricondurla a un’evidenza sociologica assai facile da verificare, la tendenza di ogni gruppo umano a isolare e colpevolizzare il diverso per i mali che nessuno riesce a spiegare.

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La convinzione di Girard che la mentalità persecutoria possa essere superata grazie alla rivelazione del meccanismo vittimario appare contraddittoria con le premesse antropologiche: la forza che può consentire di sottrarsi al conformismo violento dominante tutte le culture umane non deriva dalla semplice consapevolezza che la persecuzione è ingiusta, come vorrebbe la sua lettura del ruolo giudaico-cristiano, ma molto più plausibilmente da una resistenza, da parte delle potenziali vittime, alla persecuzione della maggioranza. Ovviamente la fede tenace in un nuovo sistema di valori può fornire preziose armi ideologiche e culturali a chi deve difendersi; in questo senso si può senz’altro individuare nella rivoluzione cristiana un ausilio al processo di difesa delle vittime, ma questo non può prendere altra forma che quella della rivendicazione, necessariamente sorretta dalla forza, del proprio diritto a non essere sacrificati. La folla può arrestarsi solo di fronte a qualcuno che mostra di non essere una vittima indifesa e i Vangeli hanno ben presto dimostrato la loro capacità di ispirare un’efficace e concretissima azione politica e sociale.

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Se La violenza e il sacro si presenta innanzitutto come un’estesa riflessione sulla tragedia greca e su un’accorta selezione di dati etnografici, la prima parte di Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo costituisce una svolta nel consueto metodo di lavoro ermeneutico di Girard; nel volume del 1978 egli mette alla prova le proprie tesi antropologiche applicandole a un periodo troppo remoto per essere documentato da qualsiasi testo. La grande fiducia di Girard nella solidità delle teorie del desiderio mimetico e della vittima espiatoria, e dunque nella loro capacità di rendere conto di una serie di fenomeni ancor più ampi di quelli delle religioni arcaiche e primitive, dipende con ogni probabilità dalla consapevolezza che il metodo impiegato è per molti versi affine a quello con cui Darwin aveva presentato il meccanismo dell’evoluzione biologica. Ma l’influenza di Darwin, come si è già visto, va al di là della metodologia di indagine e di prova: per Girard la spiegazione razionale di pratiche universalmente diffuse non può venire che dall’individuazione delle funzioni adattive che esse svolgono, in una prospettiva che ne spieghi l’affermarsi e il perdurare.

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Se dunque la prospettiva di Girard è decisamente orientata verso l’evoluzionismo, occorre chiedersi quale sia la pressione che determina la selezione delle comunità umane. Cosa ha consentito ad alcune di esse la sopravvivenza, decretando invece la fine di molte altre, che non sono nemmeno giunte allo stadio in cui sarebbe loro stato possibile lasciare tracce di sé? In Delle cose nascoste egli avanza l’ipotesi che la natura ipermimetica dell’uomo determini la nascita di rivalità intraspecifiche così intense da mettere in pericolo la sopravvivenza dei gruppi; la violenza, che solo negli animali non-umani si scioglie con “venti passi nella foresta”, mette ogni comunità a rischio di estinzione. Ma non tutti i gruppi umani si sono estinti: alcuni hanno trovato un meccanismo funzionante e, applicandolo ripetutamente, sono riusciti a garantirsi un livello minimo di pace sociale. Va qui nuovamente messo con forza in risalto il carattere non teleologico del discorso di Girard, il quale ipotizza che il meccanismo abbia battuto numerosi “colpi a vuoto”, prima di andare a effetto. Non siamo di fronte all’idea di una natura umana predestinata a produrre religioni o cultura ma piuttosto a una visione della nascita delle istituzioni socioreligiose che, vista inevitabilmente dalla parte dei gruppi sopravvissuti, ne ricostruisce a ritroso il cammino senza nascondersi l’accidentalità e individuando le esatte leggi che che l’hanno reso possibile.

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Per molte specie animali la soluzione si è presentata nella forma di dominance patterns, ovvero di comportamenti istintuali che stabiliscono una gerarchia capace di porre un termine alle rivalità. Le lotte fra animali non durano all’infinito e non portano, d’abitudine, alla morte di uno dei contendenti ma si concludono piuttosto con l’accettazione, da parte del vinto, della supremazia dell’altro; l’individuo sconfitto frena da quel momento i propri comportamenti appropriativi, con una sottomissione all’avversario che comporta la rinuncia a imitarlo in alcune sfere precise della vita. Ciò che fa agire in tal modo il vinto è evidentemente la paura di provocare un nuovo conflitto, il cui esito, come ha ottime ragioni per temere, gli sarebbe di nuovo sfavorevole. Ciò equivale a dire che i suoi istinti mimetici non sono sufficientemente potenti da indurlo a proseguire la lotta fino a rischiare la morte.

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Gli uomini non sono né più buoni né più malvagi degli altri animali: semplicemente, imitano in modo molto più intenso, portando così all’estremo sia gli elementi positivi della facoltà di apprendere dai propri simili sia quelli negativi consistenti nello scatenare conflitti. Se le rivalità umane hanno assai di frequente quale risultato finale l’assassinio, come è largamente constatabile, è evidente che le teorie che pongono in un patto l’origine delle società umane indulgono a una visione eccessivamente razionalistica delle cose umane. La violenza può essere fermata solo da un evento dal forte impatto emotivo, che doni la pace al gruppo senza che gli uomini sappiano come e perché.

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Il sacrificio animale si è andato affermando come la forma standard del rito religioso poiché gli animali sono sufficientemente simili agli uomini affinché la violenza commessa su di loro ricordi quella del linguaggio originario e funga così da efficace valvola di sfogo; d’altra parte essi sono del tutto incapaci di “rendere il colpo”, così che la loro morte, rimanendo invendicata, non rilancia in alcun modo il conflitto. Si può perciò supporre che l’esigenza di praticare con regolarità il sacrificio abbia indotto le antiche comunità a procurarsi una riserva sicura di vittime sacrificali, sempre pronte per l’immolazione; questo poteva avvenire attraverso la guerra, che ha come primo fine la cattura di prigionieri da uccidere ritualmente, ma anche attraverso la costituzione di un serbatoio di vittime potenziali non umane. Si spiega così la domesticazione animale che, secondo Girard, non ha all’inizio una finalità economica quanto piuttosto rituale.

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Il sacro, nella sua duplice accezione di beneficio e di malefico, scaturisce dal cadavere della vittima come una forza esterna e autonoma, da maneggiare con grande cautela. Tale forza è in realtà la violenza intestina, i cui poteri distruttivi devono essere sempre ricordati, affinché non ritornino a manifestarsi. Tutte le pratiche rituali si organizzano intorno alla vittima divinizzata, il cui luogo di uccisione diviene il primo altare, e tendono a mantenere distinto il “sangue buono”, versato dalla comunità nella speranza che permetta di riprodurre la pace seguita al linciaggio, dal “sangue cattivo”, quello che era corso prima dell’atto fondatore. La vittima della ripetizione rituale sta al posto della vittima originaria: è dunque il simbolo originario. Girard può così avanzare la tesi secondo cui la cultura nel suo complesso è un sistema sacrificale fondato sulla rielaborazione emotiva di un’uccisione collettiva: “la tomba è al limite il primo e l’unico simbolo culturale”.

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La vittima espiatoria è il primo significante trascendente capace di emergere dall’indistinto: il sistema simbolico più elementare non nasce , come vorrebbe la scuola strutturalista, da due elementi differenziati ma da una massa confusa, dalla quale emerge un’eccezione.

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Per quanto la differenza tra ripetizione rituale e ripetizione vendicatrice possa apparire tenue e precaria, nondimeno essa riveste un’enorme importanza, e costituisce il modello originario di tutte le differenziazioni ulteriori: si tratta infatti dell’invenzione della cultura umana.

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Lungi dall’essere il rispecchiamento di una moralità naturale e innata, la legge fondata sul sacro è dunque la fondazione stessa della morale, l’istituzione di una differenza di significato – prodotta con la forza di un gruppo che agisce in modo coeso e sancita dai simboli del sacro – fra due atti, la vendetta spontanea e la giustizia punitrice, che hanno in comune il versare sangue. La prima è fatta oggetto di divieto, la seconda di obbligo.

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Girard può dunque riprendere quasi alla lettera una nota tesi durkheimianae a affermare che il moderno sistema giudiziario “è più strettamente conforme al principio di vendetta. L’insistenza sulla punizione del colpevole non ha altro significato (…) Il sistema giudiziario razionalizza la vendetta, riesce a suddividerla e a limitarla come meglio crede; la manipola senza pericolo; ne fa una tecnica estremamente efficace di guarigione e, secondariamente, di prevenzione della violenza.

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Un assunto resta per Girard fondamentale: la laicizzazione indotta dall’usura dei rituali non riesce a produrre la fuoriuscita dell’ordine sacrificale. Essa ha due soli sbocchi possibili, entrambi fallimentari: o sfocia in una nuova crisi e in un nuovo ordine fondato su una trascendenza solo superficialmente diversa, oppure continua a decomporre la società senza trovare alcun esito riconciliatore e degenera in una “violenza priva di qualsiasi misura”. È probabile che nel primo caso il pensiero di Girard vada alle grandi rivoluzioni, quella del 1789 in particolare, ancora capaci di concludersi con una rifondazione dell’ordine mondiale; ma la storia del XX e del XXI secolo, con i suoi immani scoppi di violenza fondati su mitologie posticce e le sue minacce globali alla vita sul pianeta, fornisce a Girard gli elementi necessari per prospettare la visione apocalittica che egli oggi sostiene con tanta insistenza.

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PARTE TERZA. L’EROSIONE DEL SACRO (1978-2011)

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Per comprendere l’antropologia religiosa girardiana è necessario distinguere nettamente tre processi: la crisi sacrificale, il logoramento dei rituali, la rivelazione del meccanismo vittimario. È di quest’ultima che dobbiamo ora parlare, nella speranza di comprendere il ruolo del tutto eccezionale attribuito da Girard ai testi religiosi giudaico-cristiani.

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Nell’antropologia girardiana, sia a livello individuale sia a livello collettivo, non è importante la verità delle credenze ma l’efficacia delle azioni: contano solo i rapporti di forza, perché la funzione delle istituzioni socioreligiose consiste nel contenere la violenza intestina.

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La nuova attitudine morale passa per una comprensione dei meccanismi persecutori che, mettendo l’accento sulla responsabilità del singolo, raffredda ogni isteria collettiva e svela il carattere paranoico del mito. Il desiderio mimetico è il consapevole oggetto delle proibizioni decretate dalle Scritture giudaico-cristiane: già dall’analisi del decimo comandamento (“Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”) egli rinviene una comprensione dell’origine mimetica dei disordini sociali assai più chiara di quelli presenti nelle altre società arcaiche.

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Le “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”, come Gesù rivela, sono le verità psicologiche e antropologiche che reggono tutte le culture umane, quindi la natura mimetica del desiderio e il carattere assassino delle religioni arcaiche. In questo senso Girard può affermare, smussando un pensiero di Simone Weil, che “prima ancora di essere una “teoria su Dio”, una teologia, i Vangeli sono una “teoria sull’uomo”, un’antropologia.

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Gesù non vuole morire ma è disposto a farlo per salvare l’umanità dalla violenza.

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