Jonathan Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, 2014 (ed. orig. 2012)

Storie di finzione, fantasie, sogni sono, per l’immaginario umano, una riserva sacra. Sono l’ultimo bastione della magia”.

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In questo prezioso saggio l’autore affronta da un punto di vista psicologico ed evoluzionista, con un notevole apparato bibliografico, una domanda che, come spesso accade per quelle le cui risposte si danno per scontato, ci permette di approfondire la conoscenza della stessa natura umana. Perché ci piacciono le storie?

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Per qualche motivo vi siamo continuamente immersi. I bambini di tutto il mondo adorano le storie e verso i due anni iniziano a dare forma ai loro mondi inventati. Sogniamo di giorno e di notte, creando continuamente storie. Studi scientifici dimostrano che un sogno diurno dura in media quattordici secondi e che ne produciamo circa duemila al giorno. L’immaginazione è uno straordinario strumento della mente. Possiamo ad esempio chiederci cosa accadrebbe se mollassimo un calcio nei testicoli del nostro capo. Le pubblicità sono storie. Raramente si dice che un detersivo funziona bene, lo si mostra attraverso una mamma indaffarata. I dirigenti d’azienda sempre più spesso sostengono di dover essere dei prosatori creativi, costretti a elaborare delle narrative sui loro prodotti e i loro marchi in grado di toccare emotivamente i consumatori. Molto buon giornalismo si fonda su una marcata vena narrativa. Ci sono poi le grandi narrazioni religiose, le leggende urbane, la poesia, i cabaret, i videogiochi e i social media. C’è chi sostiene che anche la scienza sia a sua volta una grande narrazione (benché con la verifica delle ipotesi) che emerge dal nostro bisogno di spiegare il mondo. Siamo inzuppati di storie fino alle ossa. Ma, appunto, perché?

Evidentemente perché ci piace. Ma perché ci piace? Non è una cosa fisiologica come il sesso o il cibo. L’enigma dell’attitudine a narrare si riduce a questo: l’evoluzione è implacabilmente utilitaristica; come mai l’apparente lusso rappresentato dalla finzione narrativa non è stato eliminato dalla vita umana?

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Alcuni studiosi, sulla scia di Darwin, sostengono che, sotto l’aspetto dell’evoluzione, la fonte del narrare storie sia la selezione sessuale, non la selezione naturale. Forse le storie e altre forme d’arte non si limitano a contenere molto sesso, ma rappresentano un modo per riuscire a fare sesso attraverso un’esibizione delle proprie capacità. O forse le storie sono una forma di gioco cognitivo, una sorta di allenamento per i muscoli mentali. O forse sono fonti poco costose di informazioni e di apprendimento tramite l’esperienza altrui. Attraverso le narrazioni impariamo nozioni relative alla cultura e alla psicologia umana senza i costi potenzialmente pericolosi di dover acquisire queste esperienze di prima mano. O forse le storie sono una sorta di collante sociale che unisce le persone intorno a valori comuni.

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Queste e altre teorie sono tutte plausibili. Ma le storie potrebbero anche non servire a niente, perlomeno in termini biologici. Si potrebbe sostenere che le storie sono semplicemente una droga che utilizziamo per sfuggire alla noia e alle brutture della vita reale. Il cervello non sarebbe progettato per la narrazione, nel suo design vi sarebbero delle anomalie che lo rendono vulnerabile alla narrazione. Ma se l’attitudine alla narrazione fosse solo un piacevole fronzolo, l’evoluzione l’avrebbe eliminato già da parecchio in quanto inutile spreco di energia. Il fatto che le storie siano un universale umano costituisce una forte evidenza di una finalità biologica. Forse è così. Ma è davvero così facile per la selezione naturale prendere di mira i geni che m’inducono a sprecare il mio tempo con l’Amleto, tempo che potrebbe essere speso per guadagnare denaro, o procreare, o fare qualunque altra cosa che abbia ovvi vantaggi evoluzionistici? No, perché la mia forte attrazione verso la finzione narrativa è profondamente intrecciata con la mia attrazione verso i pettegolezzi, il sesso e le emozioni forti indotte dall’aggressione. In parole povere, sarebbe difficile, in termini evoluzionistici, liberarsi dall’acqua sporca delle storie senza gettare via anche il bambino, senza cioè fare violenza a tendenze psicologiche che sono chiaramente funzionali e importanti.

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Un altro fatto curioso rispetto alle storie è che producono piacere, anche se in realtà, a ben vedere, sono intrise di fatti angosciosi. Gli adulti ad esempio hanno la tendenza a ricordare il gioco di immaginazione della loro infanzia come uno spazio paradisiaco, perennemente baciato dal sole, quando invece, più che un paradiso, somiglia a un inferno. Il gioco dei bambini non è un’evasione dalla realtà, bensì un comportamento che affronta di petto i problemi della condizione umana. Il gioco di finzione dei bambini riguarda chiaramente molte cose: mamme e papà, mostri ed eroi, astronavi e unicorni; però allo stesso tempo è incentrato su una cosa sola, i problemi, le situazioni che generano ansia e preoccupazioni.

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A differenza di altri argomenti di questo libro, come la tendenza a narrare storie o sogni, quasi nessuno pensa che il gioco di immaginazione dei bambini sia una sorta di accidente casuale dell’evoluzione umana. La tesi di Jean Piaget secondo cui il gioco di finzione infantile sarebbe un “insieme confuso da cui emergeranno modi di pensare più adeguati e ordinati” è ormai decisamente minoritaria. Oggi gli esperti di psicologia infantile concordano nel sostenere che il gioco di finzione serve a qualcosa, ha delle funzioni biologiche. Il gioco è diffuso in molti animali e in tutti i mammiferi, specialmente quelli più intelligenti. La spiegazione prevalente della presenza del gioco in numerose specie è che esso aiuta i giovani a simulare azioni per preparare la vita adulta. Da questa prospettiva, i bambini che giocano stanno allenando il loro corpo e il loro cervello per le sfide che affronteranno da grandi: stanno costruendo intelligenza sociale ed emozionale. Il gioco è perciò molto importante: è il lavoro dei bambini.

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Ma perché le storie di Homo Sapiens sono ossessionate da guai e difficoltà? La risposta a questa domanda fornisce forse un importante indizio per la soluzione dell’enigma della finzione. La finzione narrativa è solitamente considerata un intrattenimento per cercare di evadere dalla realtà. Ma è difficile conciliare la teoria dell’evasione dalla realtà con le caratteristiche di fondo che riscontriamo nell’arte dello storytelling, del raccontare storie. Se la teoria dell’evasione fosse vera, sarebbe lecito aspettarsi principalmente delle storie a lieto fine, storie in cui ci sia il pieno appagamento dei desideri. La finzione narrativa potrà magari liberarci temporaneamente dai nostri problemi, ma lo fa irretendoci in una nuova serie di problemi: in mondi immaginari di conflitti, tensioni e disgrazie morali. La finzione narrativa – dal gioco di immedesimazione dei bambini ai racconti folclorici alla letteratura moderna – è incentrata sui problemi. Aristotele fu il primo a notarlo, e oggi è una nozione di base nei corsi di letteratura e nei manuali di scrittura creativa. Janet Burroway, in Writing Fiction, è chiarissima al riguardo: “Il conflitto è l’elemento fondamentale della finzione narrativa (…). Nella vita, spesso il conflitto ha una connotazione negativa, invece nella finzione, che sia comica o tragica, il conflitto drammatico è essenziale perché in letteratura solo i problemi sono interessanti. Non è così nella vita. Per usare le parole di Charles Baxter, autore di un libro sulla finzione narrativa: “L’inferno è amico delle storie”.

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In tutto il mondo le storie riguardano quasi sempre delle persone (o degli animali personificati) con dei problemi. Le persone vogliono a tutti i costi qualcosa: sopravvivere, conquistare una ragazza o un ragazzo, ritrovare un bambino scomparso. Ma grossi ostacoli si ergono tra i protagonisti e ciò che vogliono. Praticamente tutte le storie – comiche, tragiche, romantiche – sono incentrate sugli sforzi di uno o una protagonista per ottenere, di solito a qualunque costo, ciò che desidera.

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Secondo teorici dell’evoluzione come Brian Boyd, Steven Pinker e Michelle Scalise Sugiyama, le storie costituiscono lo spazio nel quale gli individui si esercitano a utilizzare le competenze più importanti della vita sociale umana. Questa tesi non è nuova alla psicologia evoluzionista. È una variante di una delle spiegazioni tradizionali dell’attitudine alla finzione narrativa. Janet Burroway, ad esempio, sostiene che il principale vantaggio offerto da questa pratica sia la possibilità di vivere delle esperienze surrogate, soprattutto emozionali, senza esporsi in prima persona: “La letteratura offre sensazioni per le quali non dobbiamo pagare prezzi. Ci consente di amare, condannare, sperare, perdonare, sognare e odiare senza correre nessuno dei rischi che queste emozioni normalmente implicano”. La psicologa e romanziera Keith Oatley considera le storie come simulatori di volo per la vita sociale umana.

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I neuroni specchio potrebbero anche essere alla base della capacità umana di creare nella mente potenti simulazioni di fronte a una finzione narrativa. Secondo un pioniere della ricerca su questi neuroni, Marco Iacoboni, i film ci sembrano tanto autentici “perché nel nostro cervello i neuroni specchio ricreano per noi il dolore che vediamo sullo schermo. Entriamo in empatia con i personaggi immaginari – sappiamo ciò che stanno provando – perché noi stessi sperimentiamo quelle identiche sensazioni. E quando vediamo le star del cinema baciarsi? Alcune delle cellule che si attivano in quel momento nel nostro cervello sono le stesse che si attivano quando siamo noi a baciare qualcuno che amiamo. Il termine “vicario” non è abbastanza efficace per descrivere l’effetto di questi neuroni specchio”. Il fatto di sapere che la finzione è finzione non impedisce al cervello di elaborarla emozionalmente come se fosse reale. Le nostre risposte alla finzione narrativa vengono ora studiate a livello neurale. Quando in un film vediamo qualcosa di pauroso o di sensuale o di pericoloso, il nostro cervello si attiva come se quella cosa stesse accadendo a noi, non solo a una figura sullo schermo.

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Sembra dunque plausibile che la nostra ininterrotta immersione nel problem solving finzionale possa migliorare la nostra capacità di affrontare problemi reali. Se così fosse, la finzione narrativa otterrebbe questo obbiettivo modificando le connessioni neurali del nostro cervello. È un assioma della neuroscienza il fatto che “le cellule che si attivano insieme si legano insieme”. Quando facciamo pratica di una determinata competenza, miglioriamo nell’esecuzione perché la ripetizione dei compiti stabilisce connessioni neurali più dense e più efficienti. È questo il motivo per cui ci esercitiamo: per scavare solchi nel nostro cervello, rendendo le nostre azioni più incisive, più veloci, più sicure.

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A questo punto è d’obbligo fare riferimento al modello di simulazione del problema descritto da Steven Pinker. Nel suo straordinario Come funziona la mente Pinker sostiene che le storie ci dotano di un archivio mentale di situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci a dover affrontare, unitamente a una serie di possibili soluzioni operative. Così come i giocatori di scacchi memorizzano risposte ottimali a un’ampia gamma di attacchi e difese, noi ci attrezziamo per la vita reale assorbendo schemi di gioco finzionale.

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Ma questo modello ha dei limiti. Come alcuni critici hanno sottolineato, la finzione narrativa può rivelarsi una guida terribile per la vita reale. Che cosa avverrebbe se cercassimo davvero di applicare soluzioni finzionali ai nostri problemi? C’è anche un altro problema nell’idea di Pinker, che pare dipendere dalla memoria esplicita, ovvero il tipo di ricordi ai quali abbiamo accesso consciamente. Riandate con la mente al passato, delle storie che vi hanno colpito di più ricorderete poco, delle altre praticamente niente. Ma il modello di simulazione non dipende dalla nostra capacità di immagazzinare scenari finzionali in maniera accurata e accessibile, bensì dalla memoria implicita, cioè da tutto quello che il nostro cervello sa ma noi no. La teoria della simulazione si basa su studi secondo cui la ripetizione realistica di qualunque abilità porta a prestazioni migliorate a prescindere dal fatto che gli episodi di allenamento siano esplicitamente ricordati. Quando viviamo un’esperienza finzionale, la nostra mente si attiva e determina nuove connessioni neuronali, preparando le vie nervose che regolano le nostre risposte alle esperienze di vita reale. Se in termini evoluzionistici la funzione della finzione narrativa è quella di simulare i grandi dilemmi della vita, le persone che ne consumano molta dovrebbero avere una maggiore competenza nell’operatività sociale rispetto a chi non ne consuma. Uno studio sembra confermare quest’ipotesi.

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I problemi sono il robusto filo rosso che collega le fantasie del gioco di immedesimazione dei bambini, le finzioni narrative e i sogni, e forniscono dunque un possibile indizio su una funzione che queste tre cose hanno in comune: consentono di fare pratica per affrontare i grandi dilemmi dell’esistenza umana. Ma individuare una funzione per il sogno o per il gioco di immedesimazione o per la funzione narrativa non significa aver trovato la funzione.

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Il pioniere della ricerca neuroscientifica sullo split-brain Michael Gazzaniga, con i suoi collaboratori, ha individuato dei circuiti neuronali specializzati dell’emisfero sinistro la cui funzione è trovare un senso alla marea di informazioni che il cervello riceve in continuazione dall’ambiente esterno. Il compito di questa serie di circuiti neurali è quello di individuare ordine e significato in quel flusso e organizzarlo in un resoconto coerente dell’esperienza di una persona: in una storia, in altre parole. Gazzaniga ha denominato “interprete” questa struttura cerebrale.

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L’emisfero sinistro è il classico sapientone; quando non sa quale sia la risposta giusta a una domanda non riesce ad ammetterlo. È anche un incessante fornitore di spiegazioni e pur di non lasciare qualcosa di inesplicato è disposto a fabbricare una storia. Queste costruzioni sono tanto astute da essere difficilmente individuabili se non in un contesto di laboratorio. L’attitudine narrativa della mente è un essenziale adattamento evoluzionistico, che ci consente di esperire la nostra vita come qualcosa di coerente, ordinato e dotato di senso, e non come un caos travolgente.

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Ma la mente narrante è imperfetta. Dopo quasi cinque decenni di studi sull’omuncolo affabulatore che risiede nel cervello sinistro, Michael Gazzaniga è giunto alla conclusione che questo omino, pur con tutte le sue innegabili virtù, può anche essere un saputello supponente. La mente narrativa è allergica all’incertezza, alla casualità e alle coincidenze. È assuefatta ai significati e, se non riesce a trovare degli schemi significativi nel mondo esterno, cercherà di imporveli. In parole povere, è una fabbrica che, quando può, produce storie vere, ma quando non può sforna menzogne.

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La mente umana è predisposta per individuare schemi e propende per i falsi positivi anziché per i falsi negativi. Lo stesso software mentale che ci rende molto vigili nel riconoscere figure e visi umani, ci fa vedere animali nelle nuvole o il volto di Gesù nei segni lasciati dalla griglia sul pane tostato. Secondo gli psicologi, questo fa parte di un “disegno della mente” che ci aiuta a percepire schemi significativi nell’ambiente che ci circonda. La nostra fame di schemi significativi si traduce in una fame di storie.

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I soggetti amnesici affetti dalla sindrome di Korsakov dimenticano continuamente chi sono e continuamente elaborano per se stessi delle nuove identità. Per dirla con Oliver Sacks, un paziente con la Korsakov è un “vero e proprio genio dell’invenzione” che “deve letteralmente inventare se stesso (e il proprio mondo) ad ogni istante”. Le teorie del complotto – febbrilmente creative, minuziosamente architettate – sono in effetti storie finzionali a cui alcune persone credono con convinzione. I fautori delle teorie cospiratorie collegano dati reali e dati immaginari in una versione della realtà coerente ed emotivamente gratificante.

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I preti e gli sciamani di tutto il mondo sapevano ciò che la psicologia ha in seguito confermato: se vuoi che un messaggio penetri in una mente umana, inseriscila in una storia. Lungo tutta la storia della nostra specie, niente come la finzione sacra ha dominato l’esistenza umana. La religione è l’espressione massima del dominio della narrazione sulle nostre menti.

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Le tendenze religiose sono o un adattamento evoluzionistico, o un effetto collaterale dell’evoluzione, o una qualche combinazione delle due cose. La più comune spiegazione secolare della religione è che gli umani inventano degli dei per conferire ordine e senso all’esistenza. Gli umani nascono curiosi, e sentono il bisogno di trovare delle risposte per le grandi domande senza risposta: perché sono qui? Chi mi ha fatto? Dove va il sole di notte? Perché partorire è doloroso? Che fine farò una volta morto? Questa è, in essenza, la spiegazione della religione come prodotto collaterale, ed è la più condivisa tra gli attuali studiosi dell’evoluzione. Abbiamo la religione perché, per natura, aborriamo l’inspiegabile.

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Nel suo pionieristico lavoro La cattedrale di Darwin, il biologo David Sloan Wilson avanza l’ipotesi che la religione sia emersa come componente stabile di tutte le società umane per una ragione semplice: le fa funzionare meglio. I gruppi umani che casualmente possedevano un istinto verso la fede hanno prevalso sui concorrenti non religiosi in maniera così decisiva che le tendenze religiose sono diventate un tratto profondamente radicato nella nostra specie.

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Come hanno affermato romanzieri quali Tolstoj e John Gardner, la narrativa di finzione è, nella sua essenza, profondamente morale. Al di sotto di tutto ciò che di perturbatore vi brilla in superficie, tende a predicare, e i suoi sermoni sono piuttosto convenzionali. Forse le storie fanno funzionare meglio le società poiché ci spronano a comportarci eticamente. Come i miti sacri, anche le storie comuni – dalle serie televisive alle fiabe – imbevono tutti noi delle stesse norme e degli stessi valori. Stigmatizzano in maniera inflessibile i comportamenti antisociali e, in maniera altrettanto inflessibile, esaltano i comportamenti prosociali. Per associazione apprendiamo che, quanto più simili siamo ai protagonisti, tanto più adatti saremo a ottenere le ricompense tipiche dei protagonisti stessi (ad esempio amore, avanzamento sociale e altri lieto fine) e tanto meno indirizzati verso le ricompense degli antagonisti (ad esempio, morte e disastrosa e perdita degli status sociali).

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Le storie – sacre e profane – sono forse la principale forza coesiva della vita umana. Una società è composta di individui indisciplinati con diverse personalità, obiettivi e programmi. Che cosa ci connette al di là dei legami di parentela? Le storie. Come ha affermato John Gardner, le storie sono “fondamentalmente serie e benefiche, una partita giocata contro il caos e la morte, contro l’entropia”. Sono la forza che contrasta il disordine sociale, la tendenza delle cose a scompaginarsi. Le storie sono il centro senza il quale il resto non potrebbe tenersi insieme.

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Negli ultimi decenni, grossomodo in corrispondenza con la nascita della televisione, la psicologia ha avviato una ricerca approfondita sugli effetti delle narrazioni sulla mente umana. I risultati degli studi sono stati solidi e coerenti: la finzione narrativa ci plasma la mente. Le storie, che siano in forma di film, libri o videogiochi, ci insegnano dei fatti relativi al mondo reale; influenzano la nostra logica morale; e ci segnano con paure, speranze e ansietà che alterano il nostro comportamento, forse persino la nostra personalità. La ricerca mostra che le storie ci condizionano, modellano la nostra mente senza che ne siamo consapevoli né consenzienti. Più profondamente siamo affascinati dalle storie, più potente è l’influenza che esercitano su di noi.

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Tutta la ricerca compiuta in questo campo mostra che siamo i grandi capolavori delle nostre menti narranti, i prodotti della nostra stessa immaginazione. Ci pensiamo come molto solidi e reali. Ma i nostri ricordi vincolano la nostra autocreazione meno di quanto crediamo, e sono costantemente distorti dalle nostre speranze e dai nostri sogni. Fino al giorno in cui moriremo, viviamo la storia della nostra vita. E, come un romanzo in corso di stesura, queste storie cambiano ed evolvono in continuazione, vengono corrette, riscritte e abbellite da un narratore inaffidabile. Siamo, in larga misura, le nostre storie personali. E sono storie più verosimili che vere.

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Gli esseri umani sono creature dell’Isola che non c’è. L’isola che non c’è è la nostra nicchia evolutiva, il nostro habitat speciale. Siamo attratti dall’Isola che non c’è perché, tutto sommato, è qualcosa di positivo per noi. Nutre la nostra immaginazione; rinsalda i comportamenti morali; ci dà dei mondi sicuri nei quali possiamo fare pratica. Le storie sono il collante della vita sociale umana, definiscono i gruppi e li tengono saldamente uniti. Viviamo nell’isola che non c’è perché non possiamo farne a meno. L’isola che non c’è è la nostra natura. Siamo l’animale che racconta storie.

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