Vito Mancuso, Il coraggio di essere liberi (2016)

Questo libro si affianca in maniera molto (quasi troppo) armonica alla mia riflessione sul tema della libertà, il che mi ha sorpreso perché di solito lo scontro tra agnostici e credenti è simile a quello tra locuste e meteoriti. Lo ritengo un testo importante.

Non mi ha pienamente convinto la parte in cui discute del bene e del male, anche se ritengo che l’etica debba fare parte della riflessione attorno al concetto di libertà. Si tratta ad ogni modo di un argomento che andrebbe approfondito.

Trovo illuminante l’idea che le massime espressioni di libertà siano da ricercarsi nell’arte e nell’etica. Altresì il pensiero che la risposta ultima sia da affidare al corpo.

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Mancuso prende l’avvio dall’idea che ognuno recita una parte nello spettacolo della vita sociale: il proprio lavoro, il proprio ruolo, ecc (si veda Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, 1956). Solo come inciso, ho pensato che tale prospettiva potesse dipendere da un bias caratteriale, perché io ad esempio non sento tale catena in maniera così forte, ma forse perché la mia esperienza di vita non è usuale.

Ad ogni modo, quale che sia il punto di partenza, il proseguo è costruito in maniera estremamente chiara e logica, adatta a lettori di ogni livello, con qualche parte in cui emerge sottinteso il vissuto personale dell’autore (ad ogni modo non in maniera esagerata, anzi proprio per questo mi è sembrato un testo particolarmente sincero ed onesto, qualità non comuni).

L’autore ricorda che il termine “persona”, sia in greco che in latino, significa maschera. Ognuno recita il suo ruolo, sociale o professionale.

Proprio per questo una condizione indispensabile della libertà è la solitudine, quei pochi momenti nei quali non indossiamo più alcuna maschera. Ma l’altra condizione indispensabile della libertà è la relazione, quando indossiamo consapevolmente le diverse maschere che l’esistenza ci impone e lavoriamo sul palcoscenico del mondo in fedeltà agli impegni assunti. Per questo motivo alla libertà è strettamente associato il coraggio, perché occorre non poco coraggio per rimanere consapevolmente e con autenticità nell’esperienza dialettica di solitudine e di relazione, di individuo e di persona.

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Sostenere che in noi possa esistere quella condizione particolare detta libertà significa collocare l’umanità in una posizione del tutto singolare rispetto alla totalità degli altri viventi, coltivando una visione del mondo aperta alla trascendenza; negarla, al contrario, significa ricondurre interamente il fenomeno umano nel seno della natura, secondo una visione del mondo detta naturalismo o anche determinismo. Se la libertà esiste, il mondo è un sistema aperto. Se non esiste, il mondo è un sistema chiuso.

La posta in gioco nell’accettare o meno la libertà è l’idea di uomo. Ammettendo la libertà infatti si sostiene una peculiarità dell’uomo rispetto al resto di tutti gli altri viventi, che ne fa il fenomeno più sublime che l’universo abbia finora prodotto. Sublime è da intendersi qui nel senso filosofico del termine: ciò che affascina e al contempo respinge.

Le parole di Pico della Mirandola fatte pronunciare a Dio Padre:

“Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quei posti, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.

Chi è l’uomo? Questione che accompagna l’umanità fin dai primordi, quando l’essere umano, oltre che faber, prese a scoprirsi anche pictor, creatore di immagini, di cui le idee sono tra le più potenti. Ha scritto Hans Jonas: “L’esistenza di immagini nella sua illimitata promessa è sufficiente evidenza della libertà umana”.

Occorre superare ogni forma di dualismo secondo cui o siamo necessità o siamo libertà, o siamo natura o siamo cultura, o siamo neuroni o siamo cultura, o siamo neuroni o siamo anima, e comprendere invece che siamo sia necessità sia libertà, sia natura sia cultura, sia neuroni sia anima. La chiave consiste in una visione evolutiva dell’essere, pensato come energia, ovvero all’opera, al lavoro, secondo l’etimologia del greco energheia, formato dalla preposizione en (in) e dal sostantivo ergon (opera, lavoro). È la visione filosofica dell’emergentismo, ovvero, per riprendere le bella espressione di Henri Bergson, della “evoluzione creatrice”.

La posizione di Mancuso è quella del sistema aperto. Non siamo né attori che recitano un copione scritto da un altro (Dio o Natura), né autori-registi-attori di un testo totalmente autoreferenziale; piuttosto qualcosa che sta delicatamente nel mezzo e che è possibile denominare libera volontà di armonia relazionale. In una parola sola, amore.

I filosofi si dividono tra chi assegna il primato alla necessità e al senso, e chi invece alla libertà e al non-senso. Mancuso presenta il pensiero di Cartesio e di Spinoza.

Cartesio sosteneva che “noi abbiamo un libero arbitrio” per palese evidenza, possiamo assentire o non assentire a molte cose.

Di contro Spinoza qualche anno dopo scriveva: “Gli uomini si ingannano nel ritenersi liberi, e questa opinione consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni ma sono ignari delle cause da cui sono determinati (…) Infatti, essi dicono che le azioni umane dipendono dalla volontà, ma sono soltanto parole di cui non hanno alcuna idea. Tutti ignorano infatti che sia la volontà e in che modo faccia muovere il corpo”.

Nel campo della fisica al campo della necessità appartiene Einstein con la teoria della relatività, al campo della libertà appartiene Bohr con la meccanica quantistica.

La prima concezione interpreta l’universo all’insegna dell’ordine, ritenendo che esso si muova seguendo precise e determinate leggi fisiche che sono il prodotto di forze tra loro finemente sintonizzate, di modo che non vi è nulla di casuale ma tutto procede secondo una precisa necessità fisica. La necessitas alla guida del tutto, che per Einstein corrisponde ai principi matematici delle leggi della fisica, venne teorizzata fin dall’antichità e fu denominata ananchē dai greci, fatum dai latini, karman dagli hindu e dai buddhisti, mentre per i monoteismi corrisponde al Dio unico e personale che vede, prevede, provvede e il cui disegno inevitabilmente si compie.

La seconda concezione, oggi maggioritaria in Occidente, considera all’opposto il mondo come generato dal caso e governato dalla contingenza: in esso non c’è nessun principio, nessun senso, tanto meno uno scopo, se non un’enorme quantità di energia che genera e fa degenerare ogni ente, la quale era caos, è ancora caos, e sempre caos rimarrà.

Secondo Niels Bohr: “Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità”.

Emerge da qui l’esigenza di una prospettiva di pensiero che sappia cogliere tale doppia ragione, sapendo sostenere al contempo sia la sensatezza e la logicità dell’essere, perché, come affermava Einstein, “Dio non gioca a dadi con il mondo”, sia la contingenza e la mancanza di un disegno lineare, perché, come affermava Eraclito, “il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi”. Ma è possibile configurare un metodo all’altezza di questo compito? In realtà la mente umana vi è giunta da secoli, tramite il suo procedere denominato dialettica.

Per quanto concerne in particolare la questione della libertà, Kant vide, benché fosse un fervente sostenitore della libertà a livello pratico, che dal punto di vista teoretico vi sono ragioni equivalenti per sostenere sia la tesi della sua esistenza sia l’antitesi della sua negazione. Ecco il testo della terza antinomia della ragion pura:

-tesi: “La casualità in base a leggi di natura non è l’unica da cui sia possibile far derivare tutti i fenomeni del mondo. Per la loro spiegazione si rende necessaria l’ammissione anche di una casualità mediante libertà;

-antitesi: “Non c’è libertà alcuna, ma tutto nel mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura”.

Il giovane Hegel, quando a livello teoretico stava sotto l’influsso kantiano, nella prima delle dieci tesi per l’abilitazione sintetizzò in modo mirabile la questione: Contradictio est regula veri, non contradictio falsi (“La contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso).

Colui che nega il libero arbitrio si potrebbe rivolgere a colui che l’ammette dicendo più o meno così: “Amico mio, nessun dubbio sul fatto che tu abbia la libertà di poter fare una cosa oppure l’altra, ma questa tua volontà potenzialmente libera di fare tutto, cosa vuole in concreto? L’oggetto del tuo volere chi lo determina? Sei tu stesso a determinarlo, o al contrario è esso a determinare te, poiché tu ne sei irresistibilmente attratto? Sei tu il soggetto e ciò che vuoi è l’oggetto, o al contrario ciò che vuoi è il soggetto e tu ne sei l’inconsapevole oggetto e spesso anche la vittima? Sei veramente libero o sei solo un prigioniero cui è stata concessa la libertà di scegliersi la prigione?”

In effetti a chi riflette sul concetto di libero arbitrio si prospettano non poche obiezioni, di cui le principali a mio avviso sono le seguenti: a) la dittatura del desiderio; b) la storia sanguinosa della libertà; c) la paura degli uomini di essere liberi.

La Bibbia descrive a suo modo questa situazione da un lato proclamando l’essere umano “a immagine di Dio” (genesi, 1,27), dall’altro affermando a poca distanza che “l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (genesi, 8,21). Facendo uso del linguaggio del mito, la Bibbia presenta un giudizio assai critico della storia umana attribuendo al primo assassino, Caino, la fondazione della prima città, e ai suoi diretti discendenti lo sviluppo della civiltà tramite allevamento degli animali, invenzione degli strumenti musicali, lavorazione dei metalli, forse anche la prostituzione (genesi 4, 17-22). Il prologo del quarto vangelo ribadisce a sua volta il concetto: “Il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe; venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Giovanni, 1,10-11).

In effetti, osserva causticamente l’autore, analizzando con disincanto l’umanità, non solo si osserva la sua condizione di schiavitù, ma si intuisce l’amara verità che di tale schiavitù gli esseri umani spesso desiderano essere preda. Essi non vogliono la libertà, desiderano piuttosto essere servi degli idoli luccicanti che la storia volta per volta propone.

Scrive Einstein: “Io non credo nella libertà del volere. La frase di Schopenhauer: “L’uomo può sì fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole” mi accompagna in tutte le situazioni della vita e mi riconcilia con i comportamenti umani, anche quando essi sono per me veramente dolorosi”. Questa concezione della libertà del volere può proteggere dal prendere troppo sul serio se stessi e gli altri in quanto individui che agiscono e che giudicano, e dal perdere il buonumore. L’intelletto sembra avere la vista lunga in fatto di metodi e strumenti, ma essere cieco rispetto ai fini e ai valori. Il fattore più importante nel dare forma alla nostra esistenza umana è individuare e fissare una meta; e la meta è una società di esseri umani liberi e felici che si prodighino con costante sforzo interiore per liberarsi dal retaggio degli istinti antisociali e distruttivi.

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La complessa esperienza cui rimanda il termine libertà affonda le radici nell’articolata costituzione del nostro essere: 1) in quanto persona-relazioni, noi sperimentiamo la libertà primariamente come indipendenza e autonomia del mondo e dagli altri, cioè come libertà-da; 2) in quanto individuo-singolarità, noi sperimentiamo la libertà come indipendenza e autonomia da noi stessi nei nostri limiti e nelle nostre impurità, il che è una forma più raffinata e profonda di libertà-da; 3) in quanto individui in grado di riconoscere e riformare se stessi, noi infine sperimentiamo la libertà come dedizione a qualcosa di più grande e più importante del nostre sé, sia questo un ideale politico o culturale o religioso o estetico, oppure un incontro con una o più persone (famiglia, comunità, movimento) o con un’istituzione; in ogni caso questo qualcosa di più grande diviene il termine di paragone per conoscerci, valutarci, riformarci, e ci fa sperimentare la libertà come libertà-per.

L’esperienza della libertà appare così consistere in un’esperienza di negazione (libertà-da) e in uno di affermazione (libertà-per), e in ciò riproduce esattamente la medesima dinamica di chiusura e di apertura alla base del movimento del nostro cuore (e di ogni altro fenomeno vitale).

All’inizio ci dobbiamo liberare e per questo la libertà si dice anzitutto come liberazione, la nascita della libertà avviene sempre sotto forma di liberazione. Si tratta di liberarsi dalle strutture e dalle persone che ci hanno nutrito e custodito e che inevitabilmente ci hanno imposto la loro logica e il loro pensiero. Per questo nella prima fase del suo sviluppo la libertà si muove all’insegna del no: no al padre, no alla madre, no all’intera famiglia, no ai professori, no ai soliti amici, no al movimento, no alla parrocchia, no a qualunque altro sistema o persona. Tale primo passaggio porta l’io a prendere coscienza di sé e del suo valore e a costituirsi al centro delle sue relazioni secondo un sistema geocentrico o egocentrico, tappa assolutamente necessaria per giungere all’autostima, alla consapevolezza, alla capacità di relazioni e di lavoro.

La libertà però matura veramente quando comprende che il no più significativo che è chiamata a pronunciare è quello rivolto a se stessa: no ai propri capricci, no alle proprie voglie, no alle proprie pigrizie, no al proprio narcisismo, no alle proprie paure, no ai propri complessi, no alle proprie idiosincrasie. Non si tratta per nulla di un processo facile, anzi, esso può durare, e quasi sempre dura, tutta la vita: è molto impervio il cammino della liberazione di sé dal sé, della lotta contro il proprio nemico interiore.

La condizione essenziale perché tale liberazione interiore possa riuscire è che la libertà venga attratta da qualcosa (una passione, un’idea, un’esperienza, un incontro) più grande di lei e a cui rivolgere il suo in modo appassionato e totale. Quando tale attrazione diviene un sì permanente ha inizio una trasformazione radicale che si può descrivere, riprendendo la metafora cosmologica, come passaggio dal sistema geocentrico al sistema eliocentrico: da un sistema centripeto tendente a far gravitare tutto attorno a sé, a un sistema centrifugo tendente a gravitare attorno a qualcosa più grande di sé. Il sistema della propria mente e della propria volontà che prima era chiuso, perché tendeva a ricondurre tutto a sé o per voracità o per paura, passa ora a essere aperto, perché non ha più come obiettivo l’incremento e il successo del sé ma la dedizione alla realtà più grande che si è scoperta e per la quale ora si vive. La più grande liberazione, quella del proprio sé, è iniziata. L’io si concepisce secondo la logica del sistema, in funzione di qualcosa di più grande di sé, servendo non più se stesso ma l’organizzazione del sistema-vita, tappa assolutamente necessaria per superare il narcisismo e per sviluppare al meglio la capacità di relazioni e di lavoro.

È quanto il cristianesimo chiama conversione (metanoia) e altre religioni in altri modi: per esempio il buddhismo parla di illuminazione (bodhi o satori).

Se quindi dicendo libertà intendiamo rimandare a una relazione creativa e consapevole con la verità del mondo, ne viene che la nostra libertà si misura sulla capacità di introdurre sia logos sia caos nei vari sistemi di cui siamo parte. Si potrebbe dire che la nostra libertà in prima battuta introduce caos dicendo no ai vari sistemi di cui è parte (è la liberazione da costrizioni esterne, la libertà-da), secondariamente introduce logos dicendo sì a una realtà ideale più grande del proprio sé (è libertà-per), in terzo luogo introduce logos iniziando a dire non al caos indisciplinato e capriccioso che abita al proprio fondo (è la libertà come liberazione dall’egoismo del sé, libertà-da in senso più profondo), senza per questo mai cessare di ricorrere al caos quando la realtà più grande diviene oppressiva o semplicemente obsoleta.

La vita si muove secondo la logica dialettica dell’antinomia che ora richiede caos e ora richiede logos, e che, proprio per questa sua strumentale impossibilità a essere ridotta a ideologia o dottrina da cui far discendere un cammino prefissato, genera libertà.

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Rimane una cosa da spiegare: come può avvenire che la libertà , di per sé così indisciplinata e interessata, inizi il cammino di liberazione da sé e giunga a dedicarsi a realtà più grandi di sé (libertà-per)?

Il primo livello di libertà-da segue una logica conforme allo stile con cui va il mondo, presenta cioè quella stessa logica di potenziamento dell’io che si riscontra nella vita quotidiana dove tutti vogliono contare, essere qualcuno ecc. Il secondo movimento, orientato alla libertà dal proprio sé, ridimensiona fortemente la logica di potenziamento dell’io. Il che è ancora più evidente nel terzo momento, nella libertà-per, dove si arriva a riconoscere qualcosa di più importante dell’ego.

Come spiegarlo? Per usare le parole di Kant: “In che modo un uomo dall’indole naturale cattiva possa rendersi buono da se stesso, è cosa che sorpassa tutti i nostri concetti: come può infatti produrre frutti buoni un albero cattivo?” E più avanti: “Come si può aspettare di ricavare da un legno così storto qualcosa di perfettamente diritto?” Come spiegare cioè che dal “legno storto dell’umanità” sia potuta e possa scaturire la purezza della disposizione interiore che porta a superare la volontà di potenza dell’ego generando quella rettitudine delle intenzioni e del comportamento cui diamo tradizionalmente il nome di bene e di giustizia?

Si può rispondere seguendo queste tre piste:

1) negando che bene e giustizia siano reali, perché c’è solo interesse personale più o meno mascherato, c’è sempre dietro volontà di potenza e affermazione di sé. È la risposta di Nietzsche.

2) riconducendo il bene e la giustizia nella loro purezza all’intervento unilaterale dall’esterno della grazia divina, perché solo intervento può sanare la corruzione dell’interiorità umana: è la risposta di Agostino, o per meglio dire del tardo Agostino, quando nell’ultima fase della sua vita era polemicamente coinvolto nella controversia pelagiana;

3) attribuendo il bene e la giustizia nella loro purezza all’azione della libertà umana che, lavorando su di sé e obbedendo alla voce della coscienza che le suggerisce il rispetto della legge morale, giunge a desiderare il bene e la giustizia per se stessi, anche a prescindere dall’interesse personale. È la risposta di Kant.

Le prime due risposte ammettono la libertà ma la ritengono impura; risolvono il problema del bene e della giustizia o negandone la consistenza o riconducendola unilateralmente a Dio. La terza risposta invece crede al lavoro della libertà alla quale attribuisce il merito dell’azione virtuosa, ma non risolve il problema dell’origine del bene e della giustizia perché rimane inevasa la questione della prima mossa: come mai la libertà umana, originariamente storta, riesce a raddrizzarsi dedicandosi al bene e alla giustizia? È merito suo anche la prima disposizione interiore in quanto desiderio di cambiare, oppure questa le proviene da fuori? E se le proviene da fuori, come intendere questo fuori?

Secondo Mancuso qui si apre lo spazio per parlare del divino e della sua azione sull’interiorità umana; e in questa convinzione segue Simone Weil, che annotava: “Rinunciare all’energia ricavata dalle spinte. Al contrario, occorre spendere energia contro di esse. È necessaria allora un’energia che venga da un altro luogo”. E poi, tra parentesi: “(N.B. Kant conduce alla grazia). (Simone Weil, Quaderni, vol 2, quaderno VI (1941)).

La libertà-per, l’assenso verso qualcosa di più grande del sé, è paradossalmente qualcosa che appartiene già al sé, alla sua parte più profonda che si identifica con la natura, con tutto ciò che è.

Normalmente si fa l’esperienza di sé come corpo e come psiche, ma la sapienza spirituale testimonia che è possibile sperimentare dentro di sé una profondità maggiore. Quando, dopo aver disposto ogni maschera del teatro della vita, ci chiudiamo nella camera interiore di cui parla il Discorso della Montagna e rimaniamo soli, accade in alcuni momenti di sperimentare se stessi al di là del proprio corpo e della propria psiche, toccando una profondità di se stessi che rimanda al di là di se stessi. È il dono più bello dell’esperienza spirituale.

È ciò che la cultura greca e quella cristiana chiamano Logos o Verbum, i buddhisti Dharma, i taoisti Tao, gli antichi egizi Maat. La Bibbia ebraica lo definisce Hokmà, sapienza, termine con cui si designa sia il vertice cui può giungere il lavoro umano e che il sapiente è in grado di produrre (Proverbi, 1-3), sia il principio cosmico identificato con la sapienza creatrice (Proverbi, 8), per un messaggio complessivo di questo tipo: se sei veramente retto e giusto, entri in contatto diretto con la logica ordinatrice del mondo, cioè con il divino.

L’induismo esprime questa medesima connessione tra profondità di sé e legge cosmica universale dicendo Atman=Brahman, ovvero: il mio respiro più profondo (Atman) coincide con il respiro del mondo (Brahman). Così la più antica Upanisad: “Quello che è l’Atman dentro di noi, è la traccia che permette di giungere all’intero universo: per suo tramite infatti si conosce tutto l’universo”; e ancora: “L’Atman è il Brahman da cui ogni percezione si origina. Questo è l’insegnamento”.

Un antico testo taoista del IV secolo a.C. intitolato Neiye, ovvero “Coltivazione interiore”, ne parla in questi termini: “Dentro il cuore un altro cuore racchiudi, / dentro il cuore, un altro cuore è presente. / Questo cuore dentro il cuore / è pensiero che precede le parole”.

In Grecia nello stesso periodo Platone usava l’espressione “anima del mondo”; mentre Aristotele ricorreva al sostantivo nous, “pensiero”, “intelletto”, traducibile anche con “spirito”, dicendo che tale nous è in noi quale nostra dimensione più profonda (nous paietikos) e al contempo corrisponde al principio divino che muove tutte le cose visto che il Dio è noesis noeseos, “pensiero di pensiero”. Sette secoli dopo, pressoché al termine della tradizione spirituale greca, Plotino presenta una delle più esplicite testimonianze su tale identificazione tra interiorità e principio cosmico: “Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io. In quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di far parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio”.

Comunione perfetta tra sé e il principio cosmico ordinatore, tra io e Dio, tramite il mondo. È l’ingresso nella dimensione più profonda della realtà, è la danza e pericoresi trinitaria che Panikkar chiama “cosmoteandrismo”. (“Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Mondo”).

Secondo questa prospettiva naturale e spirituale al contempo, se possiamo giungere a essere liberi anche da noi stessi volendo il bene e la giustizia è perché originariamente siamo spirito, ovvero perché, per usare le categorie tradizionali, siamo dotati di anima spirituale e siamo figli di dio. Se possiamo giungere a essere liberi anche da noi stessi arrivando alla purezza dell’etica è perché originariamente c’è in noi un fondo buono, descritto dalla bibbia ebraica in termini di somiglianza e ancora più preziosamente di immagine di noi rispetto al principio primo dell’essere tradizionalmente detto Dio.

Che cos’è infatti il bene? Nella sua essenza peculiare il bene è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica che le nostre particelle subatomiche formano i nostri atomi, i quali a loro volta formano le nostre molecole, le quali a loro volta formano gli organelli alla base delle nostre cellule, e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza. La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva, l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo, in quanto intelligente cura di sé.

La libertà quindi, e l’etica che ne è il compimento, ben lungi dal contrapporsi alla natura appare come il compimento della stessa: se all’interno del mondo naturale nasce la libertà, ciò avviene non contro il movimento e la logica della natura ma come suo compimento.

Il divino quindi agisce come forza che risana, innalza, ispira la nostra libertà. La libertà viene sanata dalla luce che proviene dal bene; viene dotata di forma dalla luce che proviene dall’idea del bello; viene purificata dalla luce che proviene dall’idea di perfetta giustizia; viene attratta dalla luce che proviene dall’idea del vero. Ecco l’azione della grazia. Il mondo divino viene percepito dall’anima come la realtà più degna cui si possa dedicare, la più alta, la più nobile, l’unica degna di sé. L’anima ne rimane affascinata e, liberamente, consacra se stessa.

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La libertà è percepita generalmente come assenza di schiavitù e per questo viene intesa anzitutto come autonomia e indipendenza. In questa prospettiva una delle sue definizioni più appropriate è quella che la identifica con la fedeltà al proprio sé: libertà=fedeltà a se stessi. Basta però conoscere almeno un poco l’esistenza propria e altrui per rendersi conto che le forme più insidiose di schiavitù sono di tipo interiore, provengono dal proprio ego.

Lo colse già Eraclito due millenni e mezzo fa: “Per l’uomo il carattere è il suo demone”.

Ai nostri giorni la crisi delle ideologie politiche non mi pare abbia portato a una maggiore libertà dei singoli rispetto alle loro idee, ma, molto più spesso, all’assenza di esse.

Quale libertà dunque? Se ci affidiamo a noi stessi, precipitiamo nella schiavitù del corpo, della psiche e delle idee; se al contrario ci affidiamo alla tradizione e all’autorità altrui, precipitiamo in un’altra schiavitù, forse peggiore. C’è qualche via d’uscita per dare un contenuto legittimo al concetto di libertà o ci troviamo in presenza di un’illusione, e nessuno che sia davvero consapevole della sua condizione può ritenersi veramente libero?

I concetti devono essere simili a funi reggendosi alle quali si è condotti a immergersi più profondamente nella realtà: se lo sono, vanno mantenuti e approfonditi; se non lo sono, occorre liberarsene, perché allontanano dalla realtà facendo evadere le nostre menti in mondi inesistenti. Ora, come stanno le cose con il concetto di libertà? Da sempre alcuni sostengono che sia reale, altri solo un’ingenua illusione. È possibile individuare la realtà per esprimere la quale esso è sorto e verso la quale ci dovrebbe condurre? Cosa diciamo dicendo libertà?

La mia tesi è la seguente: il concetto di libertà esprime il caos che in parte abita la nostra mente. Dicendo libertà si rimanda a quella dimensione del nostro essere che, per usare un’espressione della fisica, è possibile denominare “principio di indeterminazione”.

Sostengo la formula: libertà=indeterminazione; libertà=caos.

È per questo che, esattamente come il caos, la libertà ha un potere creativo e distruttivo al contempo. Il caos ha un potere creativo perché da esso provengono tutte le cose, come testimoniano i miti cosmogonici dell’umanità, tra cui la Teogonia di Esiodo (verso 116: “Primo fu caos”) e la Bibbia ebraica (Genesi 1,2: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”). Lo stesso si deve dire della libertà, che è condizione di possibilità della potenza creativa della mente umana, perché se questa non fosse dotata di libertà sarebbe condannata a muoversi sempre all’interno della stessa struttura, come avviene a tutte le altre specie vegetali e animali. Il caos però ha anche un potere distruttivo: scompagina, deforma, inghiotte, riconduce a livello zero. Lo stesso si deve dire della libertà, che è condizione di possibilità della potenza distruttiva che pure contraddistingue il fenomeno umano con la sua immensa capacità di male e di perversione, a differenza degli altri animali che, privi di libertà, non conoscono se non la necessità e l’innocenza della natura: quando le formiche legionarie distruggono ogni cosa lungo la marcia, non fanno che seguire fedelmente il loro istinto, in esse non c’è male ma perfetta obbedienza. Il male invece è disobbedienza, e tale possibilità di disobbedire è data dal non essere sempre del tutto determinati: la causa del male è l’indeterminazione, il caos della nostra condizione, quel magma incandescente detto libertà.

A proposito della natura però è improprio parlare di libertà. Si può dire che la natura è caotica, anche creativa, ma non libera. Ne viene che il caos è sì una condizione necessaria per il darsi della libertà, ma non è sufficiente per giungere alla pienezza del fenomeno; oltre al caos e all’indeterminazione occorre qualcos’altro.

Mancuso sostiene che questo qualcos’altro è la consapevolezza, ovvero quella condizione della mente che non solo è cosciente ma sa di essere cosciente e che da questo suo sapere fa procedere un preciso volere. La consapevolezza non è la mera coscienza che fa percepire il mondo esterno, la quale è presente in modo più o meno evoluto in ogni forma di vita; la consapevolezza è piuttosto l’autocoscienza che può giungere a sapere dell’indeterminazione caotica che la abilita e quindi può anche riconsiderare le azioni compiute e così modificare il proprio istinto e riformare il proprio agire, giungendo a volere in modo nuovo e diverso. Tale consapevolezza autocosciente può divenire talora così acuta da far sperimentare il dilemma della scelta, quando cioè si percepisce di essere a un bivio e di dover imboccare una strada oppure l’altra, sperimentando quel senso di indecisione che a volte diviene tremore, a volte paura, perché si intuisce quanto le cose muteranno in base alle parole che diremo o non diremo, quanto cioè la nostra azione potrà, per noi stessi o qualcun altro, risultare fatale. La consapevolezza talora si trasforma in un duro fardello, ma è solo mettendola in gioco che ha senso parlare di libertà.

Ho definito la libertà come caos + consapevolezza, formula che si può anche ritrascrivere come caos + logos. Ora il caos è presente da subito nell’energia primordiale. Ma da dove viene la consapevolezza?

Diceva Eraclito: “E’ proprio dell’anima un logos che accresce se stesso”. Con queste parole l’antico filosofo rimandava al lungo lavoro dell’essere-energia dentro di noi che non si ferma neppure al livello della psiche ma prosegue la sua ascesa generando un ulteriore livello del processo in cui consistiamo, o in cui, per meglio dire, possiamo giungere a consistere: mi riferisco al livello tradizionalmente detto spirito, e che io ritengo la sorgente della consapevolezza e quindi della libertà vera e propria.

Dicendo spirito si intende rimandare non alle usuali occasioni della vita nelle quali ci limitiamo a reagire, come fa il corpo che reagisce agli stimoli della fame o alla temperatura dell’ambiente, e come fa la psiche che reagisce alle simpatie e alle antipatie provocate dall’impatto tra il nostro carattere e quello degli altri; con spirito si intende rimandare a quelle rare occasioni in cui siamo in grado piuttosto di agire, cioè di creare qualcosa che prima non c’era, di porre il nuovo e il diverso, e di farlo spontaneamente, anche solo dicendo no quando tutti dicono sì, per esempio con un atto di resistenza contro un tiranno, oppure dicendo quando tutti dicono no, per esempio come un atto di giustizia verso un emarginato. Questo avviene perché in quelle occasioni non subiamo la situazione ma la penetriamo con la luce della mente e così la comprendiamo da un livello superiore, la guardiamo come dall’alto e quindi la dominiamo, in un certo senso la trascendiamo, e per questo possiamo operare su di esse e non solo dentro di essa. Proprio per sottolineare questa dimensione di superiorità o trascendenza sul contesto immediato insita nella vera intelligenza, la sapienza antica ha designato l’atto dell’intelletto come un atto spirituale: infatti nous in greco significa sia “intelletto” sia “spirito”.

Possiamo avere un’idea degli atti che meritano propriamente il nome di azioni e non di semplici reazioni, e che per questo esprimono in pienezza la libertà, se pensiamo alla creazioni artistiche e intellettuali come la composizione musicale, la scrittura poetica e letteraria, la pittura e la scultura, il pensiero filosofico e teologico, l’impresa scientifica: manifestazioni del fenomeno umano che non sono concepibili senza mettere in gioco la libertà. Ancor più che l’estetica e la cultura però, l’ambito in cui si manifesta la nostra indipendenza creativa della realtà è, a mio avviso, l’etica.

In quanto corpo noi non saremo mai liberi, né lo saremo in quanto psiche: lo possiamo faticosamente diventare solo in quanto spirito e la principale manifestazione dello spirito è il pensiero, non necessariamente sotto forma di pensieri teoretici, ma anche, come già detto, sotto forma di produzioni artistiche e scelte etiche che nascono prima nell’interiorità e poi si manifestano esteriormente.

Il pensiero può essere la sorgente della liberazione perché in esso risiede, prima ancora, la principale e più dura prigionia. Sono almeno tre le prigioni in cui esso rinchiude più o meno tutti noi: il rumore, quel continuo e insoddisfatto rimuginare, l’ego, l’ideologia.

Che un pensiero possa essere paranoico, lo può riconoscere solo un altro pensiero; e che il pensiero possa essere una prigione, lo può vedere solo un altro pensiero. A noi non è dato uscire dal pensiero, non possiamo non pensare; possiamo solo trasformare il pensiero.

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Gli esseri umani possono vivere in modo divergente oppure in modo convergente. Il modo divergente è quello che di-verte, in una continua di-versione, senza un centro definito che non sia la ricerca di sempre nuove emozioni all’insegna del di-vertente. Ma il divertimento di-verte, mentre noi per giungere a essere liberi abbiamo bisogno di qualcosa che con-verte.

Abbiamo bisogno di acquistare profondità, spessore, coerenza, sapere. Abbiamo bisogno di staccarci dalla grossolanità del perlopiù e del si dice, dalla superficie-superficiale dell’ovvietà. Abbiamo bisogno di scendere, scavare, penetrare, inabissarci nelle profondità del vostro essere, fino a toccare “l’uomo interiore” di cui parlava Agostino: “Non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nell’uomo interiore”. Chi scende scavando dentro se stesso passa dal vivere in modo divergente al vivere in modo convergente. E così acquisisce un itinerario, impara a muoversi con responsabilità lungo le strade tanto affascinanti quanto ostili di questo mondo.

La felicità appare come una condizione che tutti ricercano, ma che nessuno riesce a possedere stabilmente, con il conseguente paradosso: la sua ricerca si tramuta spesso in insoddisfazione, mancanza di serenità, ansia. Tutti vogliono essere felici, ma per questo desiderio che li porta fuori di sé nel regno del di-vertimento, si ritrovano spesso infelici. La conclusione è d’obbligo: la ricerca della felicità così come viene condotta dai più, cioè all’insegna del divertimento, conduce spesso al suo contrario, a uno stato di permanente insoddisfazione. L’equivalenza che impera nell’anima umana (felicità=divertimento) è sbagliata.

Bisogna comprendere in cosa consiste la felicità. A questo riguardo si tratta di distinguere i tre livelli fondamentali del composto umano, ognuno dei quali ha un proprio stato di benessere: al corpo attiene il piacere (della tavola, del letto, dello sport e di ogni altra manifestazione della fisicità), alla psiche attiene la felicità propriamente detta, allo spirito la gioia.

La felicità è l’accordo della dimensione fisica con la dimensione spirituale; è l’accordo del nostro essere materia necessitata con il nostro essere capacità di scelta e di creatività, cioè libertà. Tale accordo tra il nostro essere necessità e il nostro essere libertà si produce nel centro di ognuno di noi, nella psiche, di cui l’io è la centrale operativa. Per questo la felicità è anzitutto un fenomeno psichico, a differenza del piacere, che è anzitutto un fenomeno corporeo, e della gioia, che è anzitutto una dimensione spirituale.

Il senso specifico della ricerca e della pratica spirituali sta nell’uscire dall’individualismo (io realizzo me stesso quanto più mi potenzio e mi diverto) per entrare in una diversa e più ampia visione del mondo che colloca il proprio desiderio di felicità in una logica preesistente con cui la libertà si accorda. Il singolo si coglie non come originaria autonomia, ma come relazione dipendente; ma questa sua dipendenza, ben lungi dall’essere servitù, appare liberazione dal nemico più duro e insidioso, cioè l’ego con le sue voglie, le sue pigrizie, le sue paure.

Forse la parola italiana che sa rendere meglio la condizione di chi conosce quanto costa il proprio essere qui, e tuttavia gioisce di esserci e anche gli altri ci siano, è letizia. La letizia indica la gioia intima e serena di chi si raccoglie in se stesso, di chi non ride ma sorride, anzi propriamente coltiva il cosiddetto mezzo sorriso dei grandi spirituali. Ha scritto a questo proposito Thic Nhat Hanh: “Sorridere è molto importante. Se non sappiamo sorridere non ci sarà pace nel mondo…” E’ una gioia tranquilla, che scaturisce dall’aver detto sì a qualcosa di più grande, dall’adesione della libertà a un orizzonte più vasto e importante, solitamente chiamato verità, giustizia, amore, bellezza, bene, sommo bene, e che la tradizione cristiana definisce Spirito Santo.

Nel 1964 due fisici nordamenricani, Arno Penzias e Robert Wilson, stavano lavorando a un nuovo tipo di antenna a microonde quando si imbatterono in un rumore persistente: la radiazione cosmica di fondo, una radiazione elettromagnetica originatasi quasi 14 miliardi di anni fa a causa del Big Bang. Questa scoperta ci suggerisce un’analogia tra quell’antenna e la mente umana spiritualmente educata. Anche questa infatti, liberata dal fatuo desiderio di divertimento su cui i più strutturano il rapporto con la vita, può talora avvertire una persistente radiazione di fondo: è l’immane dolore degli esseri viventi, sia umani sia animali, molti dei quali sottoposti a condizioni di vita brutali e ogni giorno fagocitati dalla morte, non la morte come conclusione logica del ciclo vitale ma come prematura e spietata soppressione a vantaggio di altri.

La sapienza spirituale ha avvertito questa tragica dimensione dell’esperienza parlandone in termini di dukkha (versione pali di un’originaria parola sanscrita che significa “sofferenza” e che ricorre nella prima nobile verità insegnata dal Buddha), di caverna (come nel celebre mito di Platone), di peccato del mondo (secondo l’espressione del Quarto vangelo). Il pensiero inoltre si è posto di fronte al dolore cercando di spiegarne l’origine e la finalità, indagando anche il senso complessivo della vita che da esso procede alla luce di queste tre fondamentali domande: perché c’è il dolore? A che serve? Che cos’è questa vita che ne produce così tanto? Da qui sono nate le religioni in quanto offerta di salvezza, e da qui sono nate anche le filosofie in quanto stupore e ferita dell’intelligenza, come manifesta in greco antico l’assonanza tra thauma (“meraviglia” secondo Platone e Aristotele l’origine della filosofia) e thrauma (che, nell’italiano trauma, significa “colpo che ferisce”).

(Per il concetto di dukkha, cfr. Il discorso della messa in moto della ruota del Dharma, a cura di Claudio Cicuzza, in La rivelazione del Buddha, vol 1, I testi antichi).

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La ricetta della vita è il sistema, non c’è nulla nella vita che non sia un sistema in quanto risultato di aggregazione, per cui è veramente più forte ciò che contiene la logica dell’aggregazione, cioè l’armonia e il bene: solo in questo modo la forza è stabile e duratura.

Per questo motivo il bene è più forte del male. Se non fosse così, il mondo sprofonderebbe in questo istante. L’equivalenza alla base del male morale appare quindi un fraintendimento, un abbaglio, una sostanziale e perniciosa ignoranza: volendo essere forti, si diviene infidi e perversi, senza comprendere che la vera forza scaturisce dall’assecondare il verso fondamentale della natura, che è l’armonia, non nel pervertirlo.

E ancora una volta la nostra libertà mostra di compiersi quando si accorda a una logica preesistente, quella della relazione armoniosa, mentre l’essenza del male consiste nel disaccordo con tale logica. Tale disaccordo è dovuto all’inevitabile logica del caos quando si tratta di male fisico e a una sostanziale superba ignoranza quando si tratta di male morale.

Mancuso ritiene che vi sia una tensione dell’essere verso una progressiva organizzazione tale da generare una crescita della complessità fino alla vita e all’intelligenza. Questo sarebbe il fenomeno primordiale (Urphanomenon lo chiamava Goethe) che il pensiero deve servire: alla fine si tratta solo di diventare degni, intellettualmente ed esistenzialmente, dell’incessante costruzione che porta la materia caotica primordiale e generare la stupefacente complessità della vita, e l’ancora più stupefacente complessità dell’intelligenza e dell’amore. Null’altro: dire di sì al processo cosmico in modo libero, responsabile e possibilmente lieto. Non fa sua la posizione nichilista di chi nega ogni senso dell’essere, se non quello immesso dagli esseri umani tramite la cultura (anche perché la cultura non è altro che natura divenuta consapevole e capace di responsabilità e creatività). Se non fosse convinto dell’esistenza di un senso più ampio rispetto alla libertà umana, non potrebbe compiere il movimento costitutivo della religio, come invece si sforza di fare collegando la sua libertà a quel senso più grande che si manifesta come armonia generatrice del cosmo, della vita, dell’intelligenza, dell’arte, dell’amore e che sostiene nella ricerca del bene e della giustizia. Ciò che nega è piuttosto un governo, o una provvidenza, di tipo personale.

La logica di aggregazione tesa all’armonia relazionale non sfugge alla precarietà, è esposta a imprevisti e contraddizioni.

Perché? A suo avviso, perché è l’unica modalità escogitata dall’evoluzione per far sì che nel mondo potesse nascere la libertà. E’ la logica di logos+caos, la cui somma dà pathos, passione.

E tuttavia, quando nella vita si costruiscono momenti di relazionalità armoniosa all’insegna del bene, della giustizia e dell’amore, si sperimenta con luminosa chiarezza che la propria umanità si compie, perlomeno questa è la sua esperienza. E in questo senso possiamo parlare di una missione dell’essere umano: siamo qui per interpretare liberamente la logica dell’armonia relazionale sotto forma di bene, di giustizie e di bellezza. Quando nei diversi sistemi di cui facciamo parte si raggiunge l’armonia, il nostro essere si riempie di compiutezza e nasce dentro di noi una particolare dolcezza interiore.

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Da bambini si vive nella convinzione che il nostro essere qui abbia il senso di crescere per non essere più bambini ma finalmente grandi, come la mamma e il papà. Poi da giovani si pensa che si deve studiare per darsi una formazione e acquisire gli strumenti che permettano di avere un posto nella vita, una posizione: è bello essere giovani e ci si diverte, ma al fondo si percepisce che il senso di essere tali è quello di non esserlo più per giungere finalmente a essere autonomi guadagnando quanto serve per gestire la propria vita. Poi si comincia a lavorare e, sia pure in tempi diversi, ci si rende conto che anche il lavoro è uno strumento, non certamente lo scopo: si esercita la professione dedicandosi all’una o all’altra delle molteplici attività che gli esseri umani intraprendono per sopravvivere, ma nel contempo si capisce che una cosa è sopravvivere, un’altra è vivere. Se poi uno ha la fortuna di raggiungere il cosiddetto successo, deve stare attento a non farsi divorare dal suo personaggio, identificandosi così tanto con esso da non essere altro se non quello che fa in pubblico, alla fine solo una maschera sotto la quale c’è il buio di una voragine. Poi si giunge alla pensione, quando si tocca con mano che il lavoro non era l’obiettivo ultimo del nostro essere qui, sentendo però altresì che non si è nati per fare il pensionato e che invece c’è, o perlomeno ci dovrebbe essere, qualcosa che non sia soltanto il rimpianto del tempo passato. Ma se questo qualcos’altro non compare, se questo misterioso oltre che abbiamo iniziato a ricercare da bambini l’avessero i più grandi, e poi da giovani pensando l’avessero gli adulti, e poi da adulti pensando l’avessero quelli che hanno raggiunto il successo, ora, nell’ultima fase della vita, si rivela inesistente, si corre il rischio di cadere in quella amara condizione che gli antichi chiamavano taedium vitae e che oggi viene detta depressione, ormai una delle malattie più diffuse del nostro tempo, pare persino più dei tumori e dei disturbi cardiovascolari. E la vita appare un inganno, un perfido tranello. Ma è la vita che ci ha ingannato o siamo stati noi nella nostra incurante superficialità a non essere stati capaci di capirla e di interpretarla nel modo giusto?

Così è la scala della vita in base al lavoro, ma il corso dell’esistenza si può pensare anche secondo la scala dei rapporti interpersonali, dei cosiddetti stati di vita. Uno si chiede: perché sono nato? Per sposarmi? Per avere questo o quell’altro amore? Per mettere al mondo dei figli? Per fare il prete? La suora? Il monaco buddhista? Oppure il libertino e godermi tutte le avventure possibili? (…) Se uno riesce a imboccare la via più adatta a lui, magari avendo la fortuna di incontrare l’anima gemella, avrà senza dubbio una vita più piena e più serena di altri, tuttavia non sarà questa sua condizione relazionale a esaurire le aspirazioni e il potenziale dell’esistenza. Il compito che la vita ci consegna non si esaurisce nel vivere una vita matrimoniale, nell’essere padre o madre, nel fare professione di vita religiosa, nel vivere tutti gli amori possibili, o in qualsiasi altro stato affettivo. C’è qualcosa di più all’interno di un essere umano: un fondo che le sue relazioni, e gli stati di vita che ne sono le cristallizzazioni, non arriveranno mai a interpretare esaustivamente. L’ultima solitudo non sarà mai totalmente appagata dalle molteplici maschere dei diversi ruoli personali.

Mancuso non crede neppure a quello che ci propone la cultura dominante, ossia che il senso del nostro essere qui si concentri in un ego che deve sempre svettare al di sopra di tutto, all’insegna dell’essere “quello che mi va di essere”. Si tratta di una filosofia di vita in cui non crede per tutte le ragioni sopra esposte, la principale delle quali è la natura relazionale o sistemica dell’essere. Si ritiene un convinto difensore della libertà, ma cerca di esserlo anche liberando la libertà da se stessa consegnandola a un mistero più grande.

Pensa che la libertà abbia bisogno di essere sanata, educata, affascinata, direi attratta da una dimensione più grande, alla quale tuttavia essa partecipa direttamente, proprio nel senso delle parole che Dante fa pronunciare al suo maestro Brunetto Latini mentre gli si rivolge: “Se tu segui una stella, / non puoi fallire a glorioso porto”. La stella è più grande del singolo, quindi il singolo è chiamato a seguire; ma essa non è estranea perché il singolo le appartiene, è sua stella. Se quindi io rifiuto la dogmatica tradizionale basata su obbedienza e sottomissione, rifiuto al contempo la cultura dominante del nostro tempo basata sull’egocentrismo della libertà assoluta che non conosce altre stelle se non il proprio ondivago desiderio.

Ne viene che quando uno si pone la domanda sul senso ultimo del suo essere qui senza accontentarsi dei luoghi comuni, e magari ponendosi al cospetto dell’immensità del cielo stellato in una notte particolare, vede l’insufficienza di tutte le risposte normalmente offerte dall’esistenza ordinaria che non sanno interpellare la sua ultima solitudo.

Da chi andare per avere una risposta? Se non è l’autorità religiosa, se non è la cultura dominante, se non è l’ego con la sua volontà di affermazione, da chi andare per ottenere la risposta alla domanda sul senso del nostro essere qui?

La risposta di Mancuso è: dobbiamo rivolgerci al nostro corpo. Con ciò, ovviamente, non intendo il nostro ego, ma la nostra fisicità. È il nostro corpo in quanto fenomeno fisico a offrirci la più plausibile risposta al senso del nostro essere qui, non dobbiamo andare lontano per trovarla, è vicinissima, è dentro ognuno di noi. Il nostro corpo, in quanto risultato della logica dell’armonia relazionale che governa la natura, è la nostra stella, o, per riprendere la celebre espressione di Archimede di Siracusa (“Dammi un punto di appoggio e solleverò la Terra”), il punto di appoggio su cui fare leva. (…) La risposta è quanto mi propone il mio corpo, ciò che emerge da esso.

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Noi esseri umani creiamo arte e ne godiamo”, prosegue l’autore. “Perché? Nessuna necessità biologica ce lo impone”.

Possiamo fare della nostra vita un’opera d’arte, a cui lavorare tutti i giorni. E l’arte si può dare solo dove esiste la libertà”.

So bene che la vita e l’intelligenza non nascono e non sussistono senza dolore, tutto ciò che vive è impastato di dolore: ma l’arte è celebrazione anche di questo dolore. Anzi, senza la sofferenza la vera arte non nasce… E tuttavia assaporare la meraviglia di essere un corpo vivente, giungere alla libera consapevolezza di ciò, e generare bellezza dentro e fuori di noi in accordo con la legge cosmica dell’armonia, è un’esperienza per la quale vale la pena esserci.

L’arte è l’indice della nostra libertà perché essa, prima che nella mente degli artisti, abita le nostre anime. Per questo, incontrandola, ne godiamo: perché la riconosciamo. Ci appartiene e noi apparteniamo a lei. Veniamo dalla stessa legge. Siamo figli della stessa madre: l’armonia relazionale. Ognuno la contiene, ognuno è l’abbozzo di un’opera d’arte. Per questo possiamo modellare la nostra vita con libertà e creatività”.

E ricordate: alla fine si tratta solo di introdurre armonia nell’immenso concerto del mondo. E così generare bellezza, e ancor più essere bellezza, quella bellezza che è anche bontà.

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