Hermann Hesse, Il lupo della steppa (ed. orig. 1927)

“Invece di annullare la sua personalità, avevano potuto solo insegnargli a odiare se stesso. Contro di sé, contro questo soggetto nobile e innocente, egli volse per tutta la vita la genialità della fantasia, la potenza del pensiero. Era infatti pur sempre profondamente cristiano e martire, poiché lanciava anzitutto contro se stesso tutto l’acume, la critica, la malignità e l’odio di cui era capace. In quanto al prossimo egli faceva di continuo i più seri ed eroici tentativi di amarlo, di essere giusto, di non fargli del male perché il precetto “ama il tuo prossimo” era radicato nel suo cuore quanto l’odio della propria persona; sicché per tutta la vita dimostrò con l’esempio che senza amare se stessi non è possibile neanche amare il prossimo, che l’odio di sé è identico al gretto egoismo e produce infine il medesimo orribile isolamento, la medesima disperazione”.

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Un libro piuttosto particolare, sia in generale sia rispetto alla produzione di Hesse, per lo più realistico, a tratti onirico. Mi colpisce la nota dell’autore, alla fine, dove dice che è stato mal interpretato, che sarebbe in realtà un libro di guarigione. Anche a me il protagonista ha dato l’impressione di essere un cinquantenne che ha perso la speranza, che vive il resto della sua vita in solitudine, con colta negligenza, mal sopportando il mondo borghese nel quale suo malgrado vive, con una vena di romanticismo decadente, e che incontra in alcune donne una sorta di piacevole e insperata euforia, momenti che però a mio parere non fanno che confermare lo stato disperato nel quale si trova.

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