L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag, Gerard Schmit, 2004 (ed. orig. 2003)

Gli autori di questo libro sono due psichiatri che operano nel campo dell’infanzia e dell’adolescenza. Preoccupati dalla richiesta crescente di aiuto rivolta loro, hanno voluto interrogarsi sulla reale entità e sulle cause di un apparente massiccio diffondersi delle patologie psichiatriche tra i giovani. Un viaggio che li ha condotti alla scoperta di un malessere diffuso, di una tristezza che attraversa tutte le fasce sociali.

Ciò che a mio parere risulta interessante, in questo testo, è il considerare la tristezza, l’ansia o la depressione come un fenomeno sociale ormai diventato di massa, la cui ragione trascende, a questo punto, il piano individuale psicologico e risiede, invece, sul piano del collettivo sociale. A questo proposito i due autori svolgono nel corso del libro un’interessante analisi della società contemporanea postmoderna. In quanto terapeuti, si chiedono: il loro compito è adattarsi alla società creando esseri capaci di competere, o creare esseri capaci invece di convivere?

Vedremo alla fine la soluzione proposta, interessiamoci adesso all’analisi. La società contemporanea assiste alla fine (forse momentanea, forse no) della concezione teleologica della storia, cioè dell’idea che essa abbia una finalità. Constatiamo il progresso delle scienze e, contemporaneamente, dobbiamo fare i conti con la perdita di fiducia e con la delusione nei confronti di quelle stesse scienze. Libero è colui che domina, questo era il fondamento dello scientismo positivista. Possediamo delle tecniche, ma ne siamo, anche, posseduti. Ci limitiamo a premere dei pulsanti, ignorando il più delle volte quali meccanismi vengano innescati.

Questa realtà storica produce inevitabilmente una soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo circostante. Il mondo e gli altri diventano oggetti d’uso, e i giovani sono perennemente bombardati da messaggi pubblicitari che li invitano a diventare i valorosi predatori dell’ambiente che li circonda. Nell’estraniamento dei videogiochi, c’è la bella sensazione di poter dominare tutto.

Uno dei sintomi più significativi della nostra epoca è la contestazione del principio di autorità. A scuola e in famiglia il rapporto è diventato paritario, di tipo contrattuale. In nome della libertà individuale si devono giustificare le proprie decisioni nei confronti dei giovani. La crisi del principio di autorità apre paradossalmente la strada all’autoritarismo. La società oscilla tra coercizione e seduzione di tipo commerciale. Il giovane accetta o rifiuta ciò che l’adulto-venditore gli propone. Se questa via fallisce, non resta che la coercizione. In entrambi i casi violenza ed autoritarismo.

Il principio di autorità si differenzia dall’autoritarismo perché è basato sull’idea che entrambi i ruoli siano tali in funzione di un principio esterno a loro. Il principio di autorità, inoltre, si basa sull’idea di un bene condiviso: ti ubbidisco perché tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso questo obiettivo comune, perché so che questa ubbidienza ti ha permesso di diventare l’adulto che sei oggi, come io lo sarò domani, in una società dal futuro garantito. Ma oggi, senza futuro, o rispetto ad un futuro che fa paura, in nome di che cosa si dovrebbe fondare il principio di autorità? La sola autorità e la sola gerarchia accettate oggi sono determinate dal potere e dal successo personale, valutati all’interno dell’universo della merce. Anche le relazioni interpersonali si strutturano secondo criteri di utilità.

Tuttavia quello che sembra non aver inteso il messaggio dell’ideologia dominante è proprio l’adulto che parla di lavoro, di sforzo, di premio per la costanza… L’adulto ignora forse che non serve a nulla sacrificarsi oggi per un futuro che è pura minaccia? Anche se ci sforziamo quotidianamente di non far apparire troppo angosciante la situazione, la sofferenza e il disagio si rivelano inevitabilmente quando i giovani, che sono ben lungi dall’essere tutti affetti da autismo, vengono a conoscenza o, peggio ancora, fanno direttamente esperienza del fatto che i loro genitori possono essere gettati via come fazzoletti di carta usati che non servono più al progetto economico del loro padrone. “Papà si è sbagliato e vuole che mi sbagli anch’io, papà non conosce il mondo, se lo conoscesse guadagnerebbe molto di più e avrebbe molto più potere”: molte volte questo è il ragionamento dei giovani.

Quale corollario della crisi di autorità emerge in molti giovani un’autentica difficoltà a far proprio quello che in psicologia viene chiamato principio di realtà. Come fatto storico, l’adolescenza oggi si è notevolmente allungata. Oggi c’è chi la considera un momento di crisi che potrebbe durare fino a 35 anni e oltre. L’adolescenza esiste nelle società desacralizzate, ed occupa il posto dei riti iniziatici e di passaggio. dopo di che il giovane deve entrare a far parte di una comunità, non più come figlio, ma come suo membro, e sentirsi responsabile, a suo modo, di questa stessa comunità. Quando, in altre parole, accetta il principio di realtà. I giovani si trovano nell’impossibilità di vivere la propria adolescenza, dal momento che la società non è più in grado di offrirgli il contesto protettivo e strutturante che questa crisi esige. Molti giovani sono tentati, in mancanza del principio di autorità in famiglia, di farsi “il loro Edipo con la polizia”, spostando così il fuoco sulla società. Lo scontro normale in famiglia tra desiderio e principio di realtà, si scontra contro le norme sociali e diventa effrazione.

La cultura occidentale moderna si è fondata sull’idea che il futuro fosse promesso, come redenzione laica, come messianesimo ateo. Oggi la crisi, mettendolo in discussione, attacca le fondamenta stesse della nostra civiltà. Nella nostra società come tutte le altre, l’educazione, la trasmissione dei valori e dei principi che assicurano la continuità di una cultura si basano sulla riproduzione e sulla trasmissione dei suoi miti fondanti. Così nella cultura occidentale educare significava invitare l’altro, il giovane, a intraprendere con impegno un determinato cammino: quello della promessa che conduceva a quel futuro che attendeva e che consentiva di sentirsi parte integrante, ognuno nel suo ambito, di un progetto comune.

Allora com’è possibile educare il giovane se il futuro promessa è diventato un futuro minaccia? La cosa più strana è che le istituzioni agiscono come se nulla fosse cambiato, come se non ci fosse nessuna crisi. Tra le soluzioni patchwork, il passaggio dal desiderio alla minaccia. I giovani non vengono più educati positivamente condividendo la volontà e il desiderio di entrare nella società, al contrario vengono educati con la minaccia che se non studiano non vi entreranno. Dimenticano così la motivazione dell’apprendimento: il desiderio di imparare e comprendere.

L’utilitarismo viene presentato come la sola ideologia in grado di affrontare lo stato di emergenza. Ciascuno viene giudicato in termini quantitativi. Il voto come il salario. Il voto in relazione al salario futuro. La minaccia per studiare, la creazione di un’armatura contro la minaccia, la visione negativa del futuro, la caduta del desiderio.

Utilitarismo, neoliberismo, economicismo, la lotta di tutti contro tutti in nome dell’economia. di colpo si crea una gerarchia dei mestieri: uno fa il giardiniere non perché ama il suo lavoro, ma perché è un fallito. Gli inni alla differenza e alla diversità rimarranno dichiarazioni vane ed illusorie, alle quali non crederà nessuno finché non verrà garantito il rispetto della diversità dei percorsi individuali.

Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. Poi si dicono: “per quel che riguarda il desiderio e la vita, si vedrà dopo, quando tutto andrà meglio”. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. Come dice Guy Debord in La società dello spettacolo, se le persone non trovano quel che desiderano si accontentano di quel che trovano.

La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescano ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Educare alla cultura e alla civiltà significava – e significa ancora – creare legami sociali e legami di pensiero. La minaccia è invece iatrogena, perché tende a rompere tutti i legami che uniscono le persone. “Armare” i giovani perché affrontino il mondo che li aspetta non significa proteggerli, ma significa al contrario appoggiare e sviluppare quel mondo da cui si pretende di metterli al riparo.

Più sviluppiamo la serialità e l’individualismo, più rendiamo pericoloso il mondo e lasciamo che l’emergenza, il non-pensiero e la tristezza governino la nostra vita. In questo mondo serializzato i giovani sanno meglio degli educatori, dei genitori e degli adulti quale sia il modo più efficace di “proteggersi ed armarsi”. E non c’è da rallegrarsi perché si tratta di armi e di fortezze pericolose, come il ricorso alla violenza o alla droga, l’auto-sabotaggio o la fuga dalla sensorialità. Non solo quindi la crisi, la minaccia del peggio non ci condannano a un utilitarismo forzato, ma al contrario consentono una sola via d’uscita, che è quella di sviluppare la profonda e ontologica inutilità della vita, della creazione e dell’amore. Solo per questa via intravediamo la possibilità di aprire nuovi legami di pensiero e di vita che siano in armonia con l’anti-utilitarismo proprio della natura umana e della vita stessa.

Un’accoglienza e una clinica organizzate in funzione della prescrizione-classificazione costituiscono senza alcun dubbio la scelta ottimale se il nostro obiettivo è di tipo economico. Se consideriamo l’uomo come merce e l’insieme del mondo come un elemento economico, possiamo optare per questo tipo di clinica. Oppure adottare un atteggiamento di resistenza.

Lavorare per l’autonomia delle persone, questo potrebbe essere il motto dell’attuale ideologia dominante, nell’ambito del lavoro terapeutico. Aristotele spiega invece che lo schiavo è colui che non ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive. Il grado di forza o debolezza è il solo criterio adottato per pensare le nostre vite e concepire le nostre esistenze. La forza rappresenta una tale ossessione che la nostra società ha prodotto una concezione della libertà fondata sul dominio: libero è colui che domina.

La proposta degli autori, basata su una clinica del legame, o clinica della situazione, si sviluppa a partire da ciò che si presenta sotto forma di malessere e di sofferenza. Questo tipo di terapia non considera mai un essere isolato, ma implica la comprensione delle situazioni vissute dal “paziente”, sempre tenendo conto della differenza tra l’individuo e la persona. L’individuo è il prodotto di quell’ordine sociale che pensa che l’umanità sia composta da una serie di essere separati gli uni dagli altri, che stabiliscono contratti con il loro ambiente e con gli altri. Ma questa in realtà è una pura illusione, l’illusione del libero arbitrio. Come gli psicanalisti sanno bene, il consenso non è affatto garanzia di libertà. Anzi, i rapporti di sottomissione e di oppressione si fondano inevitabilmente sul consenso. La volontà funziona a livello cosciente, mentre il consenso è sostanzialmente inconscio. Dunque il fatto che un individuo si creda libero perché stabilisce rapporti consenzienti con l’altro non ci dice nulla della sua effettiva libertà (i rapporti patologici più dolorosi possono essere consenzienti).

La persona è l’alternativa all’individuo. Etimologicamente, persona significa maschera in latino. Una maschera che non nasconde un vero volto, ma una molteplicità di volti. La persona indica ognuno di noi come essere multiplo, intessuto di molteplicità e che accetta il fatto di non conoscere i propri limiti e la propria molteplicità. Le persone, al contrario degli individui-contratti, hanno un rapporto di apertura con il mondo. Il compito del clinico è quindi quello di cogliere in che modo l’individuo stabilisce rapporti nevrotici fondati sul senso di colpa, sulla sofferenza e sul malessere, e attraverso quali pratiche terapeutiche può aiutare la persona a creare e abitare rapporti di responsabilità. Senza “normalizzare” il bambino o l’adolescente rispetto a quello che chiede la società.

 

 

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