Introduzione a Lacan

Jacques Lacan (1901 – 1981) è stato uno psichiatra, psicoanalista e filosofo francese. Fu una delle personalità di spicco della corrente filosofico-antropologica strutturalista e post-strutturalista, assieme a pensatori come Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Louis Althusser, Roland Barthes ed altri. Le sue originali e controverse idee hanno influenzato la cultura del XX secolo e non solo. Sono state trasmesse soprattutto oralmente nei seminari (pubblicati postumi) che hanno visto una numerosa partecipazione per trent’anni. Non si può comunque dire che avesse il dono della chiarezza.

La sua elaborazione teorica è stata colta, vasta e complessa. Ci si soffermerà su alcune teorie, in particolare sullo stadio dello specchio e sulle riflessioni sul linguaggio. Il trauma stesso, per Lacan e a differenza di Freud, non sarebbe causato dal sesso, ma dal linguaggio. L’inconscio per lui è una una sorta di linguaggio senza codice, per questo è di difficile “traduzione”. La psicoanalisi viene intesa come una pratica di parola, che permette al soggetto di ricomporre un senso e ristabilire la continuità del discorso cosciente. Il desiderio che smuove l’analisi è un desiderio di riconoscimento e l’analista è il testimone della verità del soggetto. Comprendere e curare sono stati gli assi orientanti della sua ricerca.

La personalità per Lacan è l’insieme di tendenze e predisposizioni che l’individuo manifesta nel corso della propria esistenza. Tali predisposizioni sono rivelate dallo sviluppo biografico della personalità, dall’immagine che l’individuo si fa di sé e dal tipo di relazioni sociali che egli tende a stabilire.

Ma in che modo si forma la personalità? Per Freud e per il suo discepolo Karl Abraham, la storia della prima infanzia è scandita da diverse fasi: 1) lo stadio orale primario (fase dell’allattamento); 2) lo stadio orale tardivo (cannibalismo); 3) lo stadio sadico-anale primario; 4) lo stadio sadico-anale secondario; 5) lo stadio genitale primario, 6) e infine lo stadio del compimento genitale. Può accadere tuttavia che l’evoluzione non segua un corso normale, fino all’ultimo stadio, ma si blocchi a uno stadio anteriore. È ciò che gli psicoanalisti chiamano la fissazione. Se questo accade l’individuo subirà nella maturità di una patologia. In altre parole, a ogni fissazione corrisponde una certa configurazione patologica, secondo la progressione: 1) gruppo delle schizofrenie; 2) gruppo maniaco depressivo; 3) paranoia e paranoidismo; 4) nevrosi ossessiva; 5) isteria; 6) normalità.

A questa matrice freudiana Lacan aggiungerà nel 1936 la concezione originale dello stadio dello specchio, forse ispirata ad idee elaborate da Sartre.

Secondo Lacan non soltanto l’io del paranoico, ma l’io di ogni persona è caratterizzato dall’identificazione con un’immagine ideale di sé, e quindi l’io stesso, l’io come tale, si costituisce all’origine tramite un’identificazione di questo tipo. È questa l’ipotesi che porta il nome di stadio dello specchio.

L’io è un oggetto, dirà in seguito Lacan. Occorre distinguere con cura l’io (moi) dal soggetto (je). Al di qua dello specchio il bambino è un corpo in frammenti: è ancora in una fase di incoordinazione motoria, che suscita in lui disagio e frustrazione. È questo che il bambino è, è questo il soggetto je che compie l’esperienza. Al di là dello specchio il bambino si vede invece uno, si vede come un tutto di cui è padrone, nell’immagine idealizzata, vale a dire unificata, di se che lo specchio gli rimanda.

Paranoica, in questo senso, non è più una certa personalità, ma la personalità stessa, o il soggetto in quanto tale, che si scinde inevitabilmente nel corso dello sviluppo in un io senza unità (je) e un’immagine idealizzata di se stesso.

Questo sarebbe il momento in cui il soggetto diventa cosciente di sé, diventa capace di riconoscersi come un io separato dal mondo circostante e dagli altri oggetti, e quindi diventa cosciente anche di un mondo distinto da sé, distinto dall’io (moi). È un’osservazione che chiunque di noi può fare in qualsiasi momento: non posso essere cosciente di qualcosa senza essere cosciente del fatto che sono proprio io a farlo. Dunque la nascita dell’io, la sua identificazione, coincide con la nascita della coscienza, e la nascita della coscienza coincide a sua volta con la nascita dell’autocoscienza.

Nella teoria materialistica della coscienza, che Lacan esplora nei suoi primi seminari, l’io (moi), sinonimo di coscienza, sarebbe l’imago riflessa nello specchio, e in questa immagine si materializzerebbe la coscienza stessa. Questa dialettica del corpo-in-frammenti, al di qua dello specchio, e dell’immagine riflessa, al di là dello specchio, sarebbe destinata a strutturare ogni rapporto a venire tra il soggetto e i propri simili. Nel senso che sarebbe sostituendo, appunto, l’immagine di un proprio simile all’immagine speculare che il soggetto (je) passerà da un’identificazione all’altra, secondo quella che sarà la scansione della sua storia personale. Lo stadio dello specchio, in tal senso, è il momento inaugurale di ogni rapporto intersoggettivo. Esso ci restituisce la forma e l’origine di ogni identificazione dell’io, e come tale risulta sempre alienante.

È stato Hegel ad aver teorizzato per primo la verità della coscienza come autocoscienza, o l’identità di coscienza e autocoscienza, di coscienza e io. Ed è sempre Hegel ad aver sostenuto per primo che la coscienza di sé è il frutto di un’identificazione con l’altro, scalzando così il primato del soggetto cartesiano, chiuso nell’evidenza immediata di se stesso o nel “cogito ergo sum”. Per Lacan, dunque, l’io è alienato in modo primordiale, il nucleo più profondo dell’io sarebbe paranoico.

Successivamente Lacan cerca di inserire lo stadio dello specchio nel quadro teorico freudiano, con quelli che chiama “complessi familiari” (1938). L’io nasce insieme alla sua immagine idealizzata, insieme al super io o all’ideale dell’io. L’insieme di tre reazioni costanti, che fungono da modelli, nel rapporto con madre, padre e fratelli, vengono chiamati da Lacan “complessi”, sulla scia di Freud che aveva ripreso il termine da Jung.
Il complesso di svezzamento è quello che ruota intorno alla figura, vale a dire l’imago, della madre. Il bambino ne è condizionato fin dalla nascita, quindi si ha uno svezzamento non solo dal seno, ma anche dalla stessa madre. Questa fase corrisponderebbe pressapoco alla fase sadico orale di Freud e Abraham. È il complesso del corpo in frammenti, contraddistinto da tutti quei fantasmi di fusione con la madre e di cannibalismo al tempo stesso attivo e passivo, sui quali già Melanie Klein aveva posto l’accento. Ogni qual volta riaffiorerà, in un certo soggetto, la nostalgia di un rapporto fusionale con la madre, riemergerà simultaneamente l’angoscia del corpo in frammenti. Ed è questa, conclude Lacan, la vera radice dell’istinto di morte freudiano, di quella tendenza a morire, a dissolversi, che non va interpretata come un istinto biologico, alla stregua di Freud, ma come un’aspirazione – mai del tutto sopita nell’uomo – a perdersi nel grande corpo materno.

Il complesso d’intrusione ruota attorno alla figura del fratello. L’immagine speculare dello specchio è presto sostituita dall’immagine del proprio simile, del doppio o del fratello, in cui il soggetto si aliena e al tempo stesso prefigura il proprio io, tramite il processo di identificazione. Il bambino comunque continua ad oscillare tra l’al di qua e l’al di là dello specchio, tra il corpo in frammenti che l’angoscia, e l’imago fraterna, con la quale tende ad identificarsi. Il che scatena, tra lui e il suo doppio, una rivalità immaginaria, che Lacan definisce il complesso fraterno.

Ma come uscire allora dalla gabbia di questa prima identificazione paranoica? Il complesso di Edipo, che ruota intorno alla figura o all’imago del padre, dovrebbe appunto offrire una risposta a questo interrogativo. Lacan muove diverse critiche alla concezione di Freud, sostenendo che vale solo per i maschi. Secondo Lacan, inoltre, non l’istinto, o la natura, provoca il conflitto edipico, bensì l’imperativo paterno e familiare, la cultura.

Dal complesso edipico si uscirebbe comunque grazie all’imago del padre. Se nella fase anteriore, quella dell’identificazione speculare dell’io (moi), il soggetto resta ingabbiato nel dramma di una rivalità immaginaria che lo oppone al proprio doppio, nella fase del complesso edipico gli viene offerta la possibilità di sfuggire a questa dialettica di stampo paranoico, la cui instabilità tende a scatenare un ciclo inarrestabile di identificazioni sempre differenti. La stessa rivalità con il padre è vissuta inizialmente dal bambino come una rivalità con un doppio speculare. Tuttavia, se il soggetto si identifica con il padre, non si identifica più solo con un’immagine speculare del proprio io, ma con un’intera cultura, la stessa che gli impone il divieto dell’incesto. E questa identificazione culturale, che in seguito Lacan definirà simbolica, gli consente di arrestare e stabilizzare il ciclo (potenzialmente infinito) delle identificazioni speculari, da lui in seguito definite immaginarie. In altri termini, identificandosi con il padre, inteso come il custode dei tabù e dei costumi di un’intera società, il soggetto trova un punto di riferimento stabile, un’immagine idealizzata del proprio io (moi) che gli viene rinviata e per certi versi prescritta da ogni altro membro della società in cui vive, strutturando dall’altro ogni rapporto tra il soggetto e i propri simili, o la forma stessa dei rapporti sociali.

Ogni qual volta, dunque, questo Ideale si incrina e l’imago del padre viene posta in discussione – come si verifica al giorno d’oggi, secondo Lacan, nella nostra società – cominciano i guai, ossia l’uomo ripiomba nell’enigma della propria identità. Tanto da pensare, insinua Lacan, che la scoperta stessa della psicoanalisi non sia estranea a questo moderno declino della figura del padre.

Più tardi, nel 1946, Lacan riflette sul concetto di causalità psichica. La psiche umana può essere descritta a questo punto come la faglia tipicamente umana che si apre tra il soggetto e la propria immagine di sé. È l’intervallo tra il corpo in frammenti e l’immagine unificata di sé, riflessa prima dallo specchio e poi dall’altro.

La psiche è il processo stesso di identificazione del soggetto umano. E causa psichica può essere definita allora come l’imago in cui il soggetto scorge e fissa, di volta in volta, la propria identità.

Se l’imago è la causa psichica, ossia se è nel rapporto aperto, intervallare tra il soggetto (je) e l’immagine del proprio io (moi) che si schiude lo spazio della psiche, è ovvio che la seduta psicoanalitica riproduce appunto questa situazione, riproduce il processo di identificazione del soggetto con l’imago dell’altro, e può quindi agire, può produrre effetti sulla psiche del paziente, può modificare il suo rapporto con se stesso.

Come si è potuto notare grande importanza assumono, nella teoria lacaniana, concetti quali parola e linguaggio, concetti sui quali si sofferma nel 1953. La parola umana è una comunicazione in cui l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio invertito. La parola è in sostanza una domanda di riconoscimento. Il paziente si reca dall’analista perché ha un problema, soffre di qualcosa, di un sintomo, che lo disturba e in cui non si riconosce. E chiede appunto all’analista di riconoscere e spiegargli di che cosa soffre, o meglio ancora chiede all’analista di riconoscere e spiegargli chi è. Chi sono? Questa domanda – la questione del soggetto, la chiama Lacan – è sempre latente in ogni atto di parola.

Il compito dell’analista è semplicemente quello di far riconquistare al paziente una parola piena, una parola vera in cui egli possa riconoscersi. E a questo scopo l’analista dovrà capire quale sia il senso del sintomo, dovrà far parlare il sintomo, per restituire infine al paziente il messaggio del sintomo (in forma invertita, come vuole la legge della comunicazione, ossia sotto forma di un ‘tu sei questo’). Nel sintomo infatti si nasconde la verità che il soggetto non riesce a far propria. Il sintomo, l’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco o è occupato da una menzogna: è il capitolo censurato. Ma la verità può essere ritrovata; e il più delle volte è già scritta altrove. È scritta nel corpo, sotto forma di sintomo isterico (conversione somatica), o è scritta nei ricordi d’infanzia, nelle favole familiari, nei sogni, nei lapsus, insomma in tutte quelle formazioni in cui Freud ci ha insegnato a scorgere altrettante manifestazioni dell’inconscio.

Soltanto grazie a un’identificazione simbolica si può arrestare il ciclo delle identificazioni immaginarie, per ricondurre il paziente alla normalità. L’identificazione simbolica non è altro che l’identificazione con il simbolo.

Il linguaggio è simbolo. Contrapposizione tra assenza e presenza. Un simbolo, dice Lacan, è una tessera spezzata (secondo la radice etimologica del termine): è ciò che rimane in mano in assenza della cosa. La contrapposizione tra l’assenza e la presenza è dunque la struttura, o l’armatura simbolica, del linguaggio. E questa struttura è anche il simbolo della condizione umana – perennemente in bilico tra l’assenza e la presenza, tra la vita e la morte dell’io (moi), tra un più e un meno d’identità.

L’identificazione simbolica con il padre è un’identificazione con un Ideale colto come tale, che svela la natura di ogni altra identificazione (speculare, immaginaria). Grazie a essa, il soggetto afferra che non può fissare una volta per tutte la propria identità, immortalarla nell’immagine di un io (moi) che in realtà non gli appartiene, ma deve continuare a identificarsi, a ricostruire sempre la propria identità, per non soccombere alla negatività del corpo-in-frammenti.

Il soggetto resta in mezzo, sospeso tra un meno e un più, tra un’assenza e una presenza. Il che da un lato (il lato simbolico) gli consente di continuare a parlare, gli consente di continuare a intessere trame simboliche sull’ordito strutturale di fondo dell’assenza e della presenza; e dall’altro (il lato edipico) gli consente di continuare a identificarsi, di continuare a costruire la propria identità, parlando appunto – dato che la parola è essenzialmente una domanda di riconoscimento. Ecco perché allora la parola piena degenera in parola vuota: ciò accade quando la parola cessa di essere una domanda di riconoscimento (o identificazione). Il che a sua volta si verifica quando il soggetto non accede all’identificazione edipica, l’unica che gli consenta di cogliere e mantenere vivo il processo dell’identificazione: il suo passaggio continuo da un meno a un più d’identità. Ogni volta che l’identificazione edipica decade, la parola si svuota del suo potere simbolico.

Il desiderio di riconoscimento descrive ciò che lo stadio dello specchio pretendeva di spiegare. l’uomo è dilaniato dal problema dell’identificazione.

Le idee heideggeriane che affascinano Lacan sono soprattutto due 1) quella che il linguaggio sia una manifestazione dell’essere; 2) quella che l’uomo debba essere ricondotto al suo essere per la morte.

L’uomo tende ad alimentare sempre un ciclo d’identificazione col suo io, e nel passaggio da un’identificazione all’altra (o da uno specchio all’altro del suo io) oscilla ogni volta tra la vita e la morte, è posto a confronto con la morte e con la rinascita del suo io (fino all’identificazione edipica, che gli svela questo stesso processo, consentendogli di scendere a patti con la sua condizione). In tal senso l’uomo è un essere per la morte, non perché biologicamente condannato a morte. Ma perché vive la propria morte ogni volta che passa da un’identificazione ad un’altra. Questi momenti di frattura ci offrono la scansione precisa della storia di un certo soggetto.

Fino a quando il soggetto non si riconosce come un essere per la morte, non può riconoscere la sua storicità, e di conseguenza non può ricostruire quella che è la sua storia. È come se fosse accecato. E per aprirgli gli occhi, l’analista dovrà offrire in dono la sua morte, quella morte donde la sua esistenza trae tutto ciò di senso che essa ha.

Ancora sulla lettera nell’inconscio e sul segno linguistico riflette nel (1957). Si diceva che per ricondurre il paziente alla normalità, vale a dire per arrestare il ciclo delle identificazioni immaginarie e per consentirgli di accedere all’identificazione simbolica, è necessario che l’analista assuma per lui la posizione del padre, attraverso la metafora paterna. Dobbiamo prima capire cos’è una metafora. Abbiamo visto che Lacan distingue tra parola piena e parola vuota. La prima è la parola simbolica, la seconda è quella vuota di senso, anonima e impersonale. Una parola in cui il soggetto non riesce più a riconoscersi. Non è più nemmeno domanda di riconoscimento. Per fortuna la verità lascia delle tracce, che rimangono inscritte nell’inconscio. Per ricostruire la verità del paziente e restituirgliela, deve in primo luogo ricostruire la sua storia, che è scritta appunto nei suoi sintomi. I sintomi parlano, e sono d’altronde essi che portano il paziente dall’analista, a protestare o a incarnare un’ultima domanda di riconoscimento. Ma in che modo parlano i sintomi?

Per metafora e metonimia. Lacan rinvia a Jakobson. La lettera è semplicemente il segno linguistico. I segni sono gli elementi dell’ordito simbolico. Segno e simbolo sono diversi. Significante e significato. Lacan rovescia l’importanza. Siccome il soggetto parlante parla anche senza saperlo, attraverso il sintomo, e comunque il più delle volte parla senza sapere quel che dice, ça parle, l’inconscio parla in lui. È il significante a dominare il significato. Il significante, in sostanza, non manifesta semplicemente il senso o il pensiero del soggetto, come pensava Saussure, ma produce il senso. Il problema è: come?

Metonimia e metafora sarebbero i meccanismi simbolici dell’inconscio. La parola è cioè una domanda di riconoscimento perché è sempre metonimica o metaforica, e perché di conseguenza le sfugge sempre il proprio senso. E qualora essa decada a parola vuota, ossia a parola che non enuncia più tale domanda, sarà il sintomo a parlare in sua vece. Ecco come parla il sintomo, dunque, come metafora o come metonimia. Sono questi i meccanismi del sogno secondo Freud (spostamento e condensazione) e sono questi, più in generale, i meccanismi simbolici dell’inconscio di cui l’analista si serve per ricostruire e interpretare il senso del sintomo, il senso dell’inconscio.

Il soggetto parlante non sa (o non è mai cosciente fino in fondo) quello che dice. L’uomo vive in uno stato di eterna e inguaribile e estraneità rispetto a se stesso. E per questo l’inconscio è il discorso dell’Altro. Perché non sono io (moi), ma è come se fosse un Altro a parlare al posto mio, un Altro in cui io non mi riconosco; e perché è sempre a un Altro che si rivolge la mia parola o la mia richiesta di riconoscimento. Qual è allora il compito dell’analista? Non è quello di illudere il paziente rinviandogli un’immagine statuaria e speculare dell’io, che tende a spegnere la domanda di riconoscimento, ma quella di restituirgli la parola come domanda di riconoscimento, scorgendo in tale domanda il senso del sintomo e il senso stesso della parola umana (piena, vera).

Per Lacan, in certo modo, non si può guarire. Come diceva Rimbaud, “io sono un altro”. “L’incosncio è il discorso dell’Altro”. Il senso è il soggetto stesso, che non ha un’identità propria, un significato stabile, ma si risolve integralmente in una domanda di riconoscimento, che può essere assolta solo da una catena di significanti che si rimandano l’un l’altro. Il soggetto è semplicemente il ‘senso’ della parola, un senso che corre e scivola da un significante all’altro, senza mai risolversi in un significato.

Il processo dell’identificazione è interminabile. È proprio quando pensiamo di guarire, di sanare la faglia, la divisione, della soggettività, che cadiamo nella malattia. A quel punto, infatti, la nostra parola cessa di costituire una domanda di riconoscimento, si svuota di ogni senso, si trasforma in una semplice chiacchiera. E spetta al sintomo farsi carico del nostro senso, del senso della nostra parola (domanda di riconoscimento) e del nostro essere, della nostra soggettività (chi sono?).

Non si può guarire, guarire significherebbe spegnere la domanda che noi siamo, il senso che incarniamo, mentre il compito dell’analista è tutt’altro: è quello di riaprire e riattivare il processo dell’identificazione, fino a farne cogliere il carattere fatale e interminabile, al paziente.

Non si tratta di assoggettare l’inconscio all’io, ma l’io all’inconscio. Il paziente deve accedere, non a una certa identità, ma al processo stesso di identificazione, inteso come un processo di soggettivazione – o un processo che il soggetto è.

 

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