L’umanità dell’uomo e la cosalità delle cose si dissolvono nel calcolato valore commerciale di un mercato che non solo si estende fino ad abbracciare la terra come mercato mondiale, ma che, in quanto volontà di volontà, mercanteggia nell’essenza stessa dell’essere.
M. Heidegger, Sentieri interrotti
Fabio Garzitto
In questo testo Diego Fusaro rinnova un filone della ricerca filosofica che si potrebbe far risalire ai decenni successivi alla Rivoluzione Industriale, ad esempio proprio con lo stesso Marx, e che, con continui riaffioramenti, giunge fino ai giorni nostri. In particolare, l’autore conduce un’analisi di come il tema della tecnica sia stato trattato da Marx ed Heidegger, di come l’approccio pur critico di questi due autori sia stato in sostanza differente, e di come potrebbe essere coniugato per poter tornare a guardare al futuro con speranza.
Marx, come sappiamo, è il teorico dell’alienazione e della necessità quasi morale di compiere l’esodo dal regno della reificazione capitalistica. Heidegger riprende questo tema, sostenendo però che Marx non avrebbe capito fino in fondo l’essenza della tecnica. D’altra parte, se Marx sosteneva non solo che fosse possibile, ma si dovesse cercare alternative al modus operandi del capitalismo, Heidegger sembra invece considerare il mondo della produzione tecnica e le sue leggi economiche come date, addirittura come compimento della metafisica occidentale, come un destino, considerando la tecnica come un Gestell, un impianto anonimo e autoreferenziale, sotteso e ormai immanente alla nostra maniera di vivere.
Per entrambi, comunque, la vita ai tempi della tecnica porta con sé qualcosa di disturbante, di negativo. Il modo di produzione capitalistico, secondo Marx, è di per sé alienato e reificante, così come il mondo della tecnica è per Heidegger inautentico. È il tratto comune dei due autori. Tanto l’Entfremdung marxiana (alienazione) quanto l’Uneigentlichkeit heideggeriana (inautenticità) si riferiscono al divenire straniero dell’Io a se stesso, al suo svilimento reificante a cosa tra le cose, nel dominio incontrastato delle leggi oggettive della produzione. Con la grammatica del paragrafo 27 di Sein und Zeit, nell’inautenticità della società di massa e del conformismo planetario ognuno è come l’altro e nessuno è se stesso (Jeder ist der Andere und Keiner er selbst). Sviluppando le considerazioni di Sein und Zeit (Essere e Tempo) sul Man omologato, si potrebbe dire che, nella società di massa, l’imposizione dei modelli comportamentali e degli stili di vita per opera della moda e della pubblicità permette non soltanto di rilanciare sempre di nuovo il movimento della “valorizzazione del valore” (Marx) e del fare febbrile e scomposto della tecnica (Heidegger), ma anche di controllare capillarmente gli individui lasciandoli vivere nell’illusione di essere liberi e autodeterminati. Nell’impianto (Gestell) l’uomo viene provocato a comportarsi in modo corrispondente allo sfruttamento e al consumo. L’uomo non ha in mano la tecnica. Egli è il giocattolo di quest’ultima.
La moda, ad esempio, promette a ciascun Esserci il modellamento di un sé unico e irripetibile e insieme propone a tutti, in modo seriale, lo stesso modello a cui conformarsi, in una vera e propria reciproca identificazione, dietro l’apparente diversificazione. Ciascuno può essere se stesso unicamente essendo nel modo in cui “si” è. Per questo la moda è la maniera in cui, sul piano estetico, la società di massa impone in forma morbida e flessibile l’adattamento, l’omologazione agli archetipi imposti dall’astuzia della produzione grazie alla dittatura morbida del Man. La “curiosità” (Neugier) come modo decaduto del discorso (Rede), la “chiacchiera” (Gerede) come modalità capovolta della visione e l’ “equivoco” (Zweideutigkeit) come modo rovesciato dell’interpretazione costituiscono gli elementi fondamentali dell’heideggeriana “esistenza inautentica” del mondo alienato, promossa tra l’altro dalle prestazioni ingannatorie dell’industria culturale.
Per Marx il capitale persegue il telos del proprio incremento smisurato, proprio come, heideggerianamente, la tecnica rincorre lo scopo del proprio irrelato e insensato autopotenziamento, in una cornice di mero nichilismo antiumanistico, in cui il mercato diventa il solo valore direttivo.
Il progresso senza emancipazione, cifra del mondo della tecnica, esprime una crescita unicamente quantitativa, che differisce infinitamente il transito dalla quantità alla qualità, ossia il rovesciamento dell’esistente in forme di vita e di pensiero finalmente conformi a ragione e libertà. È quella che Heidegger qualifica anche come “la coercizione a progredire”, cuore segreto della tecnica e della società da essa plasmata e propria immagine e somiglianza. Essa necessita della spinta propulsiva dei consumi e, dunque, delle istanze desiderative per poter mantenere in moto il sistema della produzione, con un continuo rilancio dei desideri verso la fantasmagoria di una quantità indeterminata ma illimitatamente crescente. Il solo scopo del fare febbrile orchestrato dalla Technik è la conservazione dell’ordine esistente e del suo principio nichilistico del sempre-di-più, rispetto al quale l’uomo, ridotto al rango di “animale tecnicizzato”, è un mero supporto passivo.
Sia l’Esserci heideggeriano che l’umanità marxiana non esistono in astratto, sono sempre storicamente situati. Per Marx, in particolare, i modi della produzione hanno effetti che potremmo forse anche chiamare costitutivi sull’essere dell’uomo: l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.
Se però Marx considera il genera umano come un soggetto singolare-collettivo, l’uomo come un animale socievole, comunitario e politico che può esistere solo nella comunità, con la conseguenza che si può essere liberi solo là dove lo sono tutti, Heidegger invece considera il singolo Esserci, che si sottrae alla presa reificante e aderisce a una forma di vita più autentica, come l’unica via di salvezza. Non si tratta di trasformare il mondo, al contrario occorre per il singolo Io abbandonare il piano dell’inautenticità e dell’omologazione conformistica ad essa collegata.
Heidegger, a differenza di Marx, considera il Gestell, l’impianto tecnico, come una sorta di involucro, come il sistema in cui ci è dato vivere, senza possibilità di cambiamento sociale. L’unica possibilità, come detto, sarebbe per lui quella di una salvezza individuale. Marx, che invece è proprio al contrario dalla parte del cambiamento e anzi della rivoluzione sociale, vede però questo Gestell come neutro. Secondo lui il problema non sono i modi e la struttura del sistema tecnico in sé, il problema, quanto il modo in cui esso è utilizzato nel sistema capitalistico. Per lui la soluzione sarebbe (o sarebbe stata) fare in modo che questo sistema venga invece utilizzato dal proletariato. Heidegger, accorgendosi che il sistema della tecnica non era neutrale, aveva invece visto più lontano, adombrando temi che sarebbero poi stati elaborati da Adorno e Marcuse.
Nel “mondo capovolto” della notte del mondo, si tratterebbe di ristabilire un conflitto, un’opposizione ragionata che ponga il pensiero meditante contro il pensiero puramente calcolante, interrompendo il fare frenetico del tecnocapitalismo e rendendo possibile una diversa configurazione dell’essente e dei rapporti tra gli uomini e la produzione. Riappropriarsi del pensiero pensante, ossia di una capacità di meditare più profonda di quella superficiale e meramente strumentale della scienza, già da sempre organica alle logiche della tecnica.
Se il Gestell genera fisiologicamente la perdita della consapevolezza del carattere soggettivo del mondo sociale, presentandosi come una realtà data indipendentemente dalla soggettività umana, il pensiero di Marx opera in direzione contraria: riattiva il senso della possibilità e mostra la natura soggettiva e, dunque, non definitiva, né intrasformabile, del mondo storico, del modo della produzione.
Secondo Fusaro, e come non concordare, il dramma che l’umanità sta vivendo scaturisce dalla convinzione universale non solo dell’irreversibilità di questa tendenza (i processi feticizzati dell’economia e della tecnica scatenata), ma dell’impossibilità di alternative storiche al cosmo tecnocapitalismo, ossia la certezza, diffusa a ogni latitudine politica, che non sia realizzabile nella pratica alcun altro sistema socioeconomico.
L’autore sostiene inoltre che, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, una ripresa di Nietzsche attraverso Heidegger ha svolto il ruolo di “camera di decompressione” per un’intera generazione (dal “pensiero debole” al “pensiero negativo”), con l’abbandono della dialettica, della prassi e del “sogno di una cosa”, e per il suo passaggio, armi e bagagli, alla rassegnazione depressiva della ragion cinica dell’ “abbandono” e della tecnica come destino. Tanto il pensiero negativo di Cacciari, quanto quello debole di Vattimo, si reggerebbero sull’accettazione, tragica nel primo caso, euforica nel secondo, dell’infondatezza di ogni idea emancipativa e sul presupposto, sia pure diversamente declinato, dell’ “impossibilità di riscattare-revocare l’alienazione nichilistica”. È in questo senso che l’heideggerismo, nelle sue molteplici varianti, può essere inscritto nel più ampio orizzonte delle filosofie del “disincantamento” (Entzauberung) che nella seconda metà del secolo XX hanno preso il sopravvento. Esse hanno delegittimato integralmente la dialettica hegelo-marxiana, santificando il tecnocapitalismo nelle forme opposte (e segretamente complementari) della volgare esaltazione postmoderna del nichilismo come luogo della libertà e della sua tragica condanna connessa con l’ammissione della sua intrasformabilità pratica.
Già con i protagonisti della Scuola di Francoforte era maturata la consapevolezza del dominio assoluto del tecnocapitalismo: e, tuttavia, accanto al disincanto pessimistico di un Horkheimer e alla dialettica negativa di un Adorno, con la sua messa in congedo del nesso marxiano tra teoria e praxis, vi era ancora spazio per i sogni utopici e redentivi della ragione rivoluzionaria di Marcuse. È solo con la visione heideggeriana della Technik, però, che l’abbandono della prassi marxiana diventa il nucleo teorico di una prospettiva che, trasfigurando il Gestell in invio destinale della storia dell’essere, sfocia in quella Weltanschauung (visione del mondo) disincantata e tragica, depressiva e aprospettica che è oggi divenuta egemonica su tutto il giro d’orizzonte.
Per Fusaro un pensiero che voglia coniugare ragione e rivoluzione, critica e prassi, non può rivolgersi, con Heidegger, all’andenkendes Denken, al “pensiero rammemorante” che ripercorre la storia della metafisica ormai realizzata nell’apparato tecnico della cosmopoli. Occorre invece tornare alla metafisica idealistica del nesso soggetto-oggetto dialetticamente declinato, nel senso di Marx e di Hegel, assumendola come programma antiadattivo per la mobilitazione contro la tecnica oggi trionfante. Tale rivoluzione, in grado di intrecciare le grammatiche di Marx e di Heidegger, potrebbe trovare nella categorie metafisiche del limite e della giusta misura il proprio coefficiente di unitarietà.
L’orientamento dell’azione dovrebbe essere il superamento del mondo dello sfruttamento capitalistico e della crescita infinita della tecnica, di modo che la giusta misura possa informare di sé ogni ambito, ponendo in essere rapporti sociali tra individui egualmente liberi e un nesso con la natura e con l’essente basati su presupposti che non siano quelli del furor theologicus della crescita e della potenza.