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Breve e agile libretto, tratto da una lezione alla scuola Holden, in cui Baricco paragona il narrare a una disciplina spirituale orientale come potrebbe essere, ad esempio, la cerimonia del tè.
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“La cura della tecnica, l’attenzione per i dettagli, la fatica della correzione sarebbero allora quel protocollo di cura che è presente in tutte le Vie, dove il più alto traguardo spirituale passa sempre attraverso la riuscita di un gesto della mano, dell’occhio, del corpo. Fuori dalla cerchia ristretta di chi sa compiere quei gesti con una perizia speciale si moltiplica il numero di coloro che aspirano a compierli in modo semplicemente educato, e a esercitarli, e a perfezionarli. Intuiscono che nella loro ripetizione dimora una disciplina antica, una Via tra le altre. A essa non sembra insensato affidare il compito possibile di portare brevi esistenze individuali a compimento, saldando quanto è certo nella loro coscienza a quanto ancora è pagina in bianco e carta coperta”.
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Non sono proprio d’accordo con quest’immagine anche se, come al solito per quel che riguarda le tesi espresse da questo autore, è interessante e potente. Le pratiche orientali si ripetono sempre uguali da secoli, il risultato finale può essere, ad esempio, la perfezione di un gesto. In questa replica di un gesto sempre uguale a se stesso io vedo lo stesso pericolo che Baricco coglie nello strutturare le storie sempre secondo l’archetipo del viaggio dell’eroe di Campbell, di cui parlo in seguito. Capisco le sue ragioni, anche perché parla di praticanti e non di maestri, e concordo molto con l’idea che la scrittura possa essere (anche) una via di conoscenza, di libertà, di guarigione, di realizzazione. Mi piace molto anche l’immagine che trae da Lacan, anch’essa riportata in seguito.
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Ma, in quanto espressione di possibile libertà assoluta l’arte, la scrittura in questo caso, deve a mio parere anche avere una componente selvatica non irreggimentata. Solo così può mettere assieme in maniera autonoma (e originale?) l’abisso del profondo e la pagina bianca del futuro anteriore di cui parla Lacan. Certo, è poi vero che la pratica deve passare attraverso un lavoro.
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Segnalo anche una certa sensazione d’irritazione che mi produce quest’autore. Ho pensato un po’ al motivo, non è perché esprime idee diverse dalle mie. Penso dipenda dalla posizione che assegna al lettore modello, una posizione d’inferiorità. Questo lo dico come ipotesi e nota personale, come interessante effetto di senso del testo.
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Venendo al contenuto del libretto, mi piace molto l’immagine di una storia descritta come “campo magnetico”.
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“Accade talvolta che singole tessere del reale escano dal rumore bianco del mondo e si mettano a vibrare con un’intensità particolare, anomala. Alle volte è come un piacevole frullare di ali. Altre è come una ferita che non vuole richiudersi, una domanda che attende una risposta. Una giornata di caccia, per un uomo preistorico, o il lampo di uno sguardo illeggibile in metropolitana, per noi. Là dove si verifica quella vibrazione si genera una sorta di intensità che, quando dura nel tempo – superando lo statuto di pura e semplice meraviglia -, tende a organizzarsi e diventare figura disegnata nel vuoto. Si direbbe che per ottenere una certa permanenza generi intorno a sé un campo magnetico, dotato di una sua geometria. Noi diamo un nome particolare a questi singolari campi magnetici. Il nome è: storie”.
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La genesi può durare un attimo, o può incubare per anni. Intende inoltre la storia come un movimento non inteso come linea tra A e B, ma come uno choc di partenza che produce uno spazio.
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Alcuni tipi di campi magnetici che chiamiamo storie:
1. Il buco nero. Attrazione fatale per un buco nero centrale, illeggibile, forse sovrumano, spesso maligno. Le forze in campo hanno come missione distruggere la fonte da cui sono attratte e atterrite (Iliade, Don Giovanni, Dracula) (Il signore degli anelli, aggiungo io)
2. La riparazione. L’ordine del mondo subisce un’alterazione e bisogna rimetterla a posto (Oltre il confine, L’amore ai tempi del colera, Sherlock Holmes)
3. Il gorgo. Un movimento circolare che torna ossessivamente allo stesso posto. (Odissea, Viaggio al termine della notte, La Recherche)
4. La diserzione. Dalla materia si stacca un frammento, apparentemente impazzito, che mette in pericolo l’intera sequenza del reale. L’esito finale è la rigenerazione del sistema o l’annientamento della cellula di diserzione.
Le forme dei campi magnetici, secondo Baricco, sono infiniti.
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Riporto quanto dice sui personaggi:
“Come si vede, nel loro momento aurorale le storie sono la composizione di alcune forze, quali l’intreccio di correnti marine. Non sono in nessun modo un assemblaggio di personaggi. Ciò che chiamiamo personaggio è l’effetto di un’azione concettualmente successiva: gli umani, per leggere meglio quelle correnti, danno loro una forma antropomorfa. I personaggi, i caratteri, gli eroi, sono sempre la traduzione antropomorfa di un’energia, di una corrente, di una sezione del campo magnetico. Il buco nero, Achille. Il gorgo, Odisseo. Chi vede il personaggio senza scorgere la forza e la forma geometrica che gli sono sottese si ferma alla facciata di una storia, mancandone il cuore.”
“In questo senso va capito che l’aspetto psicologico dei personaggi, il diagramma del loro divenire psichico, non è altro che la formulazione per così dire matematica, calcolabile, di una figura antropomorfa, a sua volta formulazione didascalica del puro erompere di una forza. Lungi dall’essere l’origine di una storia, il percorso psicologico di un eroe ne è giusto una lontana emanazione. Che sia emerso in superficie come parte più visibile del narrare è il frutto di un’anomalia del romanzo otto-novecentesco, poi ereditata dalla narrazione audivisiva. Ma già Benjamin metteva in guardia dal collocare il romanzo, senza riserve, nel novero delle narrazioni vere e proprie”.
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Una storia è come una sfera di energia che riposa in se stessa. Molti la conservano per un’intera vita, come una lastra fotografica che non viene mai sviluppata. Perché la sfera diventi linea si usa la trama. In una versione più sofisticata, che è segno distintivo delle narrazioni più alte, la trama può disporsi non solo come una scaletta di eventi, ma simultaneamente come una sequenza di forme, consistenze, tonalità, andature.
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In principio ci sono le storie, dunque. Campi magnetici. Spazi di intensità. Le trame le abitano, le attraversano, e le rendono leggibili. Sono geroglifici che le significano, mappe che le raffigurano.
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INTERVALLO: IL VIAGGIO DELL’EROE, DI CHRISTOPHER VOGLER
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Il libro che più di ogni altro ha segnato negli ultimi 30 anni l’idea collettiva di cosa sia la narrazione l’ha scritta uno sceneggiatore americano, Christopher Vogler, agli inizi degli anni Novanta (Il viaggio dell’eroe). La convinzione, ereditata da Campbell e alla lontana da Propp, è che tutte le storie derivino da un unico modello originario e archetipico. Un eroe viene chiamato a compiere un’impresa, parte per compierla, riesce a superare tutte le prove portando con sé nuova sapienza o potere.
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“In realtà”, sostiene Baricco, “si può affermare con una certa sicurezza che il viaggio dell’eroe, lungi dall’essere una sequenza narrativa universale e archetipica, è il chiaro prodotto, storicamente determinabile e completamente artificiale, di un pensiero dominante”.
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“Come Iliade e Odissea erano il manuale di una certa classe dominante dell’ottavo secolo a.C., così il repertorio di figure mentali con cui è costruito il viaggio dell’eroe coincide interamente con l’epopea concettuale di una precisa forma di dominio, storicamente affacciatasi all’inizio del XIX secolo: il mito dell’eroe che cambia il mondo, l’ossessione per l’individualismo, il culto indiscusso del progresso, l’idea che a generarlo sia il superamento di una serie di prove, il bisogno strutturale di un nemico, la necessità dell’ottimismo e quindi del lieto fine, e perfino la convinzione che le cose accadono in forma lineare e secondo un’architettura ordinata e razionale: chi non riconosce il marchio di fabbrica di una precisa civiltà produttiva e al contempo il suo debito evidente verso un’idea militare, guerriera dell’esistenza?”
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“Per questo chi insegna a narrare ha una grande responsabilità. In un certo modo è chiamato a condividere una clandestinità e a difendere un’insubordinazione. Poi, dopo, arriverà anche il momento di occuparsi di arredamento, e il piacere di insegnare a costruire tavoli solidi, utili e belli. Ma solo dopo. Prima, insegnare a narrare coincide essenzialmente con l’essere in grado di rigenerare quote di libertà, rimuovendo blocchi e paure”.
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Dove c’è una storia, soccorsa da una trama, quello che ancora manca è una voce. Lo stile. Lo stile è di pochi. Non si può insegnare, lo si possiede.
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“Dunque”, secondo Baricco “Narrare è l’arte di lasciare andare una storia, una trama e uno stile nel flusso di un unico gesto. Il suo scopo è tenere insieme cielo e terra”.
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Accade a volte che storia, trama e stile si diano compiutamente intrecciati, nell’esercizio dorato di ciò che chiamiamo narrare. In un numero di casi circoscritto, la loro fusione è così rotonda da cancellare qualsiasi segno di sutura e traccia di costruzione.
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“Viene in mente quello che diceva Lacan. L’inconscio, diceva, non è il contenitore di un passato rimosso, ma il capitolo lasciato ancora in bianco nel testo di un’esistenza. Non è qualcosa che viene dal passato ma, diceva furbescamente, dal futuro anteriore. Pensava anche, con una riflessione esteticamente splendida, che non dobbiamo immaginarci come il germoglio di un seme, né il risultato di un passato: ma piuttosto come la conseguenza ancora incompiuta di un futuro anteriore. Siamo l’avverarsi di una profezia che ancora giace, non scritta, nel nostro inconscio, nelle pagine della nostra storia che abbiamo lasciato bianche. Un giorno sarà stata scritta: lui credeva che questo accadesse nella parola analitica, nella prassi analitica. E che scrivere la profezia, colmare le pagine bianche, fosse anche un modo di riscrivere il proprio passato. Sarebbe questo guarire, o quanto meno giungere a compimento?”
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Chi racconta, diventa. Non si limita a organizzare il passato ma suscita il futuro. Mentre apparentemente rilegge pagine già scritte tempo prima, con la parte più animale e istintiva del suo narrare sta scrivendo le pagine bianche che si era lasciato indietro.