Haruki Murakami, A sud del confine, a ovest del sole (ed. orig. 1992)

Murakami è uno dei pochi autori le cui opere sono capaci di trascinarmi ancora nei suoi mondi narrativi, nei suoi mondi diegetici, attivando in me quella che Coleridge chiamò “sospensione dell’incredulità”.

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In questo libro, come in altri, sembra attingere alle sue esperienze biografiche. Narra di un uomo di mezz’età che ripercorre la sua vita, figlio unico, un’infanzia abbastanza solitaria in cui conosce a scuola un’altra figlia unica con cui stringe un forte rapporto di comprensione e silenzi. La sua vita continua, l’università, solitudine, un primo lavoro che non lo appaga. Ancora qualche rapporto con qualche ragazza, ma ancora la sensazione di due isole che percorrono un tratto di strada assieme. Poi l’incontro con la futura moglie, l’apertura di un jazz club, l’apparente uscita da quella sensazione, come di sospensione dalla vita, una sensazione di conforto dato da affetto familiare e soddisfazioni professionali, fino al ritorno di un passato che non aveva potuto dimenticare.

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Un intreccio costituito da pulsioni di vita e di morte, in cui comunque le prime sembrano prevalere.

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Le scene si susseguono in maniera “naturale”, i fatti raccontati sono essenziali, qui più che nel lessico si può forse leggere le lezione di quello che dichiara essere uno dei suoi maestri, Carver. Il suo lessico, pur essendo piacevolmente semplice e scarno, risulta comunque a mio parere più morbido, rotondo, più “accogliente”, di quello dello scrittore americano.

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Mi sono chiesto come mai le corde esistenziali di questo autore, appartenente ad un’altra cultura, entrino in risonanza con le mie (e non solo, a giudicare dal suo successo). Certo la globalizzazione ha fatto il suo corso, Murakami si è formato su libri, musica e cinema americani, eppure alla base di tutto, a questo punto, si potrebbero forse chiamare in causa degli “universali” comuni alla natura umana. Chissà.

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