Marocco IV: Da Marrakech a Merzouga

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Da Marrakech ho preso un tour turistico per il Sahara, tre giorni in minibus. Il primo giorno avremmo fatto una sosta in un villaggio patrimonio dell’Unesco, avremmo poi passato la notte in albergo. Il secondo giorno saremmo arrivati a Merzouga, la porta del deserto.

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Da lì saremmo saliti in groppa ai cammelli e avremmo raggiunto un accampamento nel deserto per la seconda notte. La mattina dopo, all’alba, avremmo ripreso il viaggio, nel mio caso verso Fes da dove partiva il volo di ritorno.

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Tutte le tappe marocchine, tutti i posti che ho visitato mi hanno lasciato qualcosa (tutti), ma il deserto, così come le lande tutto sommato desolate che abbiamo attraversato per arrivarci, hanno per me un fascino particolare.

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Ho attraversato l’outback australiano, in parte anche con un tour simile a questo (ma con una ventina d’anni in meno). Ricordo ancora alcune delle persone che incontrai allora, chissà che fine hanno fatto. Ai tempi si ascoltava musica dall’iPod, quello bianco gigantesco con la rotellina in mezzo, con una ragazza parlammo dei Calexico, lei li aveva visti in un piccolo club negli Usa, era americana mi pare, o canadese.

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Un ragazzo si era messo a meditare, a pelle non c’era grande sintonia ma mi aveva colpito. C’era un ragazzo austriaco giovane e simpatico con cui passammo una notte nell’appartamento dell’autista a Darwin (eravamo partiti dall’East Cost, da Brisbane, credo). Per ragioni che non dirò ricorderò forse per sempre come mi guardava mentre stavo mangiando un boccone il giorno dopo in un ostello.

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Ho ripensato a quel deserto, quello australiano, in Marocco. Mi sono reso conto che era stato un viaggio arricchente (posto che esistano viaggi non arricchenti, ma forse il deserto in me risuona in modo particolare). Certo la terra e la roccia rossa australiana e i bassi arbusti hanno poco a che fare con la sabbia dorata e senza vegetazione delle dune del Sahara.

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Eppure… Centinaia di chilometri di nulla, uguali però diversi, per un europeo abituato a vedere case e manufatti umani ovunque è un’esperienza abbastanza sconvolgente. A me il deserto piace, c’è poco da fare, mi dà sensazioni piacevoli, penso a tante cose, oppure al nulla. Penso alla gente che ci vive.

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In Australia, ad esempio, c’era una stazione di servizio, un posto dove ci si fermava per far benzina, mangiare o bere qualcosa. Sarà stata a due o trecento chilometri dal luogo abitato più vicino, c’era un uomo alto e magro con i baffi che ci lavorava, aveva passato la mezz’età, non so se il posto fosse suo, il vento faceva rotolare un cespuglio attraverso la strada deserta. Come nei film.

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Nel Sahara ho pensato a Gurdjieff, in un suo libro racconta come con un gruppo cercarono di attraversarlo ingozzando delle capre anche di sabbia ma poi uno di loro rimase ucciso e tornarono indietro. L’ho raccontato a una ragazza mentre andavamo all’accampamento sui cammelli. Abbiamo parlato di Amundsen, da poco avevo visto un bel film sulla sua vita, lei era norvegese. Di Lawrance d’Arabia, dei primi avventurieri europei che ci avevano viaggiato probabilmente anche su cammelli.

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Il tour è stato abbastanza interessante fin dall’inizio, da come era organizzato mi pare si possa un po’ capire come funzionino gli affari in Marocco. Sono venuti a prenderci, tutti quelli che partecipavano, nei singoli alberghi o camere o ostelli, ci hanno portato tutti in una piazza. Poi ci hanno divisi per minibus, credo che nessuno abbia mai capito secondo che logica, comunque è stata un’operazione abbastanza lunga. C’erano forse quattro o cinque mezzi, 8 posti ciascuno più l’autista. La sera ci hanno lasciato in alberghi diversi, e il giorno dopo ci poteva essere un autista o un bus diverso. Per strada abbiamo anche caricato qualcuno di nuovo.

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Praticamente, da quel che ho capito, le agenzie da cui avevamo comprato il viaggio erano diverse, ed ognuna contrattava gli alberghi e gli accampamenti nel deserto per conto suo. Non ho poi capito se i bus appartenevano ad un’unica agenzia o anche gli autisti dei bus erano ognuno per conto suo e li assoldavano sul momento in base ai partecipanti al tour (che credo partisse ogni giorno). Insomma prendevano tutto (i turisti) poi in qualche modo organizzavano alloggio e trasporto. Un sistema un po’ casinista ma ottimo per sviluppare l’arte dell’improvvisazione. Poi le cose, in un modo o nell’altro, andavano abbastanza a buon fine. Per un italiano è sostenibile, un tedesco potrebbe impazzire. Io sinceramente l’ho trovato divertente, anche quando al ritorno mi avevano messo su un bus che tornava a Marrakech invece di andare a Fes, e se non mi avessero avvertito e non avessi chiesto tanto per sicurezza chissà cosa sarebbe successo (temo che sarei tornato a Marrakech, non penso che mi avrebbero dato i soldi indietro. Una cosa simile mi è poi successa in Egitto).

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Uscendo da Marrakech, procedendo verso sud, ci si trova abbastanza presto in mezzo a zone desertiche. Lungo la strada si attraversa qualche cittadina, qualche villaggio, si vedono molte caserme. Poi si comincia a salire sulle colline che fanno parte della catena montuosa dell’Atlante. È un sistema montuoso impressionante, attraversa per 2500 km tutto il Nord Africa, oltre al Marocco attraversa anche l’Algeria e la Tunisia. Sebbene non ci siano grandi arbusti la zona è più verdeggiante, tra le gole si raccoglie l’acqua. È una zona desolata ma piuttosto bella. In alcuni punti, d’inverno, scende la neve.

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Ait Ben Haddou

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La prima sosta è stata a Ait Ben Haddou, un antico villaggio fortificato sulla tradizionale via carovaniera da Marrakech al Sahara. È considerato un notevole esempio di architettura d’argilla marocchina ed è Patrimonio Unesco dal 1987. Il villaggio è stato fortificato sin dall’XI secolo dagli Almoravidi, ma nessuno degli edifici ora esistenti risale a prima del XVII secolo.

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Oggi ci vivono pochissime persone, la maggioranza si è trasferita nella cittadina moderna dall’altra parte del fiume.

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Ait Ben Haddou

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Il villaggio antico si trova all’interno delle mura che comprende torri agli angoli e una porta. Ci sono anche una moschea, un caravanserraglio, una kasbah (una specie di casa fortificata) e un mausoleo. In cima alla collina c’è un granaio fortificato.

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Ait Ben Haddou

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Le mura delle strutture sono fatte di argilla compressa, fango e paglia, e devono essere periodicamente ristrutturate perché vengono erose dalla pioggia.

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Ait Ben Haddou

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Ait Ben Haddou viene ormai da molti anni utilizzato come location cinematografica. Recentemente vi è stato girato il “Trono di Spade”, ma si parte da “Lawrance d’Arabia” nel 1962, per continuare con “Edipo Re” del ‘67, “L’uomo che voleva essere re” del ‘75, “Marco Polo” dell’82, “Kundun” del ‘97, il “Gladiatore” del 2000, “Babel” del 2006, il “Figlio di Dio” del 2014, per citarne solo alcuni.

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Ourzazate

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Nella valle di Dades ci siamo fermati a Ourzazate, dove c’è uno dei più grandi studi cinematografici al mondo e da dove sono partite tutte le importanti produzioni soprattutto hollywoodiane a Ait Ben Haddou e nei dintorni. Lo studio è visitabile ma noi abbiamo fatto solo una sosta.

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Gole di Dades

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Il giorno dopo, dopo aver passato la notte in albergo e aver mangiato l’immancabile tajin, ci siamo fermati per una sosta alle gole di Dades, una serie di aspre gole scavate dal fiume Dades, piuttosto pittoresche.

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Gole di Dades

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L’ultima sosta prima del deserto l’abbiamo fatta a Tinghir, un’altra cittadina berbera. La parte vecchia era un villaggio simile ad Ait Ben Haddou.

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Tinghir

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Abbiamo attraversato degli orti coltivati per raggiungerlo (una visione non proprio comune in Marocco), e abbiamo visitato una cooperativa che tesseva tappeti.

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Il mestiere della tessitura dei tappeti è molto diffusa in Marocco e produce risultati notevoli, ma io purtroppo non li amo particolarmente.

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In Marocco, vale forse la pena di spendere due parole, ho scoperto dell’esistenza del popolo e della cultura berbera. I Berberi, gli Imazighem o “uomini liberi”, sono le popolazioni autoctone del Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania). Sono una popolazione europide, sembra che abbiano popolato il Nordafrica fin dal Neolitico. La maggior parte della popolazione in Marocco e Algeria è di origine berbera, per quanto si identifichi in larga parte come araba.

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Esiste una lingua e una scrittura berbera, che è diversa da quella araba. Soltanto a seguito della primavera araba i politici l’hanno resa lingua ufficiale. In Marocco dal 2011 e in Algeria dal 2016.

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Molte associazioni culturali, in Nordafrica e nei paesi di emigrazione, sono sorte per rappresentare le istanze dei Berberi e per difendere i loro interessi e i loro diritti negati. Dal 1997 esiste un’organizzazione sovranazionale indipendente, il Congresso Mondiale Amazigh, che mira a rappresentare con una voce unica a livello internazionale le associazioni culturali berbere di ogni parte del mondo.

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La sera siamo arrivati a Merzouga, la porta del deserto del Sahara. Ne scriverò nel prossimo episodio.

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