Ehrenberg, Alain, La fatica di essere se stessi. Depressione e società (La fatigue d’etre soi. Dépression et société, 1998).
Offrire un quadro d’insieme della malinconia… sarebbe come scrivere la storia della sensibilità dell’uomo contemporaneo.
Raymond Klibansky
Ho incontrato questo libro mentre cercavo di capire e approfondire come fosse cambiato il concetto di ‘io’ nel tempo. In questo senso, e sicuramente anche in molti altri, questo testo è molto interessante perché, studiando come siano cambiate le “malattie psichiche” nel corso del tempo, si può comprendere non solo come siano cambiate tali malattie, ma anche come sia cambiata la maniera di considerarle e, soprattutto, la psiche stessa.
Alain Ehrenberg è un sociologo francese. Attualmente è direttore del Cesames (Centre de recherches psychotropes, Santé Mental, Societé), di cui è stato il fondatore.
Nel 1970 la psichiatria dimostra che la depressione è il disturbo psichico più diffuso al mondo. L’autore si chiede quali siano le ragioni e le implicazioni sociali per cui essa abbia potuto conquistare il primato fra le patologie del profondo e, appunto, in quale misura essa è rivelatrice delle mutazioni dell’individuo nell’ultimo scorcio del XX secolo.
Lo spazio temporale dell’indagine mi pare ricoprire poco più che un centinaio d’anni, dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, il periodo in cui questo libro è stato scritto. Alla fine dell’Ottocento Freud “scopre” l’inconscio, nascono gli studi psicologico, il genere del romanzo, e si può dire che nasce, insomma, quello a cui oggi ci riferiamo quando diciamo “io”. In questo senso la nozione di persona è neutra, nel senso che tutte le società hanno elaborato una rappresentazione della persona, quale che sia questa rappresentazione. Al contrario, le nozioni di personalità, soggetto e individuo sono nozioni “moderne”.
L’affermazione di questa nuova sensibilità, destinata ad approfondirsi nel corso di tutto il XX secolo, apre la strada alle inquietudini intime e agli interrogativi identitari, soprattutto ai livelli più elevati della gerarchia sociale. Gli storici hanno descritto i dilemmi crescenti di un certo tipo di persona che intendono essere protagoniste del proprio viaggio interiore svincolandosi del tutto dalla tradizione, persone che scrutano la propria immagine esterna (democratizzazione del ritratto, diffusione degli specchi, nascita della fotografia ) e contemporaneamente si esplorano incessantemente dall’interno (il monologo del diario intimo, le conversazioni segrete con interlocutori muti).
Se oggi l’equivalenza tra patologia mentale e sofferenza psichica è data per scontato, non è sempre stato così. L’individuo, oggi, può dire io soffro, e non soltanto io soffro di qualcosa. L’uomo greco soffriva sempre di qualcosa, serviva dunque un oggetto perché tale sofferenza esistesse, mentre l’uomo moderno soffre tout court, e può essere egli stesso l’oggetto della propria sofferenza.
La depressione, in passato, veniva generalmente indicata come malinconia, e non le veniva assegnata uno statuto come malattia vera e propria. Il libro tratta i passaggi da malinconia, a nevrosi a depressione, mettendo in risalto come l’attenzione si sposti dalla colpa alla responsabilità.
A partire dagli anni di Freud e Janet, alla fine del XIX secolo, avviene la creazione stessa della nozione di nevrosi. Si ha un primo spostamento d’accento dalla colpa alla responsabilità. Sia Freud che il suo grande concorrente, Janet, modernizzano il vecchio concetto di nervosità con la nuova nozione di psichico, rendendo così accettabile l’idea che lo spirito possa ammalarsi senza che intervenga necessariamente una causa organica. Freud fa discendere la nevrosi dal conflitto, mentre Janet fa riferimento a un deficit o a un’insufficienza.
Ma anche la “malattia” precedentemente considerata, la malinconia, aveva bisogno di un contesto culturale per poter “esistere”. Si aveva a che fare con dei “malati” che non erano “pazzi”, ma solo tristi. La dicotomia ragione/sragione non definisce appieno il problema del disturbo mentale e in particolare lascia intatto il problema della sofferenza, che ha a che fare invece con la dicotomia felicità/infelicità. E per pensare l’alienazione come sofferenza e non soltanto come sragione si rendono indispensabili appunto un contesto e una civiltà, che è stata quella nata in seguito alla Rivoluzione industriale proprio alla fine dell’Ottocento. Il precedente secolo dei Lumi è il secolo della Ragione, ma è anche quello della Felicità: vi si elaborano, insomma, le due istanze principali del processo di laicizzazione che fonda la modernità.
Dopo la malinconia, allora, è una nuova malattia a far furore, la nevrastenia. È il primo segnale per un’attenzione nuova, sociale, per la sofferenza come disturbo funzionale. Al contrario della malinconia si trattava di un fenomeno nuovo. Il suo scopritore, l’americano George Beard, l’aveva denominata “malattia della vita moderna”, scorgendovi il riflesso nervoso dell’affaticamento industriale. Ansia dei tempi nuovi, inquieta convivenza col progresso e la grande città. La nevrastenia appare in effetti come un esaurimento nervoso prodotto dalla vita moderna e non come una sindrome degenerativa, per cui la sua eziologia pone al primo posto il fattore sociale.
Emile Durkheim, nel momento in cui ricorda le “varie anomalie che abitualmente si fanno risalire al denominatore comune della nevrastenia”, si premurava di aggiungere che era una malattia che si andava generalizzando perché il mondo era cambiato. Crescita della possibilità di spostamento nello spazio e nelle gerarchie sociali, diffusione della ricchezza, nuovo ruolo politico delle masse, declino della religione, veleni della modernità (alcol), letteratura che esplora abissi ancora insondati dell’anima umana ecc.
Questo periodo storico è forse quello in cui il senso di colpa all’origine dei disturbi psichici, come sosteneva Freud, ancora legato alle società tradizionali precedenti, comincia a scivolare verso un’angoscia prodotta da una depressione, come sosteneva invece Janet, ad un senso d’insufficienza.
Se la nevrosi era dunque la malattia dell’uomo alienato, la depressione sarebbe la malattia dell’uomo contemporaneo, una malattia della responsabilità. Il depresso non si sente all’altezza, è stanco di dover diventare se stesso.
Siamo ormai emancipati, nel senso proprio del termine: l’ideale politico moderno, che fa dell’uomo il proprietario di se stesso e non più il docile strumento del Principe, si è esteso a tutti gli aspetti dell’esistenza. L’individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso di cui Nietzsche annunciava l’evento, è ormai una comune forma di vita.
Non si tratta solo di denunciare la famosa scomparsa dei punti di riferimento. In realtà abbiamo più a che fare con la confusione tra molteplici punti di riferimento (dalle “scienze nuove”, vuoi filosofiche vuoi religiose, ai programmi televisivi destinati a dare un senso a tutto, ecc.) che con la loro perdita. Fa parte della nuova “libertà”. Chissà, forse sempre meglio della soffocante società disciplinare.
È il sisma dell’emancipazione ad aver sconvolto, a livello collettivo, l’intimità di ciascuno di noi: la modernità democratica – e questa è anche la sua grandezza – ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posti a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento. Siamo divenuti puri individui, nel senso che non vi è più alcuna legge morale né alcuna tradizione a indicarci dall’esterno chi dobbiamo essere e come dobbiamo comportarci. Da questo punto di vista, la contrapposizione permesso/vietato, che regolava l’individualità fino a tutti gli anni ’50 e ’60, ha perduto ogni efficacia. La preoccupazione crescente per un ritorno all’ordine e il desiderio imperioso di nuovi codici strutturanti e di nuovi “limiti invalicabili” trovano qui la loro molla. Il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento. E ciò induce a porre in altri termini la questione dei limiti normativi dell’ordine interiore: la contrapposizione tra il permesso e il vietato tramonta per far spazio a una contrapposizione lacerante tra il possibile e l’impossibile. Per cui l’individualità viene a trovarsi notevolmente trasformata.
La depressione dunque ci illumina sulla nostra attuale esperienza della persona, poiché essa è la patologia di una società in cui la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e l’iniziativa. In passato, le regole sociali imponevano il conformismo e, con esso, l’automatismo dei comportamenti; oggi, esse reclamano lo spirito d’iniziativa e l’intraprendenza mentale. L’individuo è messo a confronto più con una patologia dell’insufficienza che con una malattia della colpa, più con l’universo della disfunzione che con quello della legge, il depresso è l’uomo in panne. Essa esprime l’impossibilità stessa del vivere, e lo fa col linguaggio della tristezza, dell’astenia (la fatica), dell’inibizione e di quella particolare difficoltà a dare il via all’azione che gli psichiatri chiamano “rallentamento psicomotorio”. Il depresso, incalzato da un tempo senza futuro, appare irrimediabilmente privo di energia, risucchiato nella logica del “niente è possibile”. Spossati e svuotati, agitati e violenti, in una parola, malati di nervi, scontiamo dentro i nostri stessi corpi il peso della sovranità individuale: nuova decisiva variante di quel “difficile compito” a cui, secondo Freud, l’uomo civilizzato deve sacrificarsi per potersi appunto definire civile.
L’additivo – lo confermano gli psichiatri – è un mezzo per combattere la depressione: erode i conflitti attraverso un comportamento compulsivo. Gli additivi incarnano l’impossibilità di una completa padronanza di sé: il tossicodipendente è schiavo di se stesso, e dipende da un prodotto, da un’attività o da un’altra persona. Ed è per questo che oggi il tossicodipendente – come un tempo il pazzo – è la figura simbolica che meglio definisce i tratti dell’anti-soggetto. Se la storia della depressione è la storia di un soggetto introvabile, l’additivo esprime la nostalgia di un soggetto perduto.
Se la nevrosi, per concludere, è un dramma della colpa, la depressione è una tragedia dell’insufficienza: l’ombra anche troppo familiare dell’uomo senza guida, intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente se stesso e tentato di sostenersi con l’additivo dei farmaci o dei comportamenti compulsivi.
Il pazzo da un lato, il drogato dall’altro. I due modelli simbolici elaborati dalle società moderne per designare l’esatto rovescio del loro ideale di persona. Il primo compare all’alba della democrazia, il secondo due secoli più tardi: tra i due il processo psichico che evolve dall’alienazione alla nevrosi, e poi dalla nevrosi alla depressione.