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Provoca qualche emozione leggere il primo, o il primo romanzo di “successo”, di uno scrittore amato. Fu pubblicato quando Hesse aveva 27 anni.
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Ci sono alcuni temi ricorrenti nella sua opera che mi affascinano. I personaggi in fondo romantici, o romantici perché anti romantici, un po’ dark, si sarebbe detto forse qualche anno fa. Solitari, problematici, contro corrente, in cerca di sé stessi. C’è il tema del sentirsi diversi, della ricerca, del buddismo, della predestinazione, del piacere del pensiero. C’è una ricerca del bene, anche se problematico.
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E in Peter Cemenzind, incredibilmente, c’è già tutto questo. C’è già anche una scrittura a cui non interessa di essere alla moda, che non cerca (o non troppo) di compiacere. O non solo.
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Fa quasi tenerezza vedere il giovane Hesse struggersi attorno a problemi giovanili esistenziali ed artistici. E tuttavia, ci sono alcuni passaggi degni di nota, che raggiungono, o lasciano intendere, le profondità che gli permisero di creare un’opera originale, piacevole, scorrevole, insolita, degna di entrare nell’El Dorado della letteratura.
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Il romanzo parte con una descrizione del piccolo paese di montagna dove vive Peter, in cui gli abitanti si chiamano quasi tutti Cemenzind.
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Siccome era pigro, ma dotato intellettualmente, potè uscirne per andare a studiare in seminario.
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Da lì cominciò a guadagnarsi da vivere scrivendo, soprattutto per i giornali, ma continuando anche a coltivare la scrittura “alta”, senza però trarne alcunché di convincente.
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Viaggiò, frequentò qualche persona dal temperamento artistico, si diede alla natura e all’alcol perché gli uomini non gli davano troppa soddisfazione. Ebbe qualche infatuazione, ma andarono tutte male.
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Cominciò a pensare che questo amore “francescano” per la natura doveva averlo anche per gli uomini. Per un periodo si prese cura di una persona disabile, si prodigò nel voler conoscere le persone ed amarle.
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Poi ricevette una lettera in cui si diceva che il padre stava male, tornò al paese, e riconobbe che quello era il suo posto, il posto giusto per lui. Tra i Cemenzind, dove non era né strano né problematico. era di nuovo uno normale.
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Hesse è tra gli scrittori che amo di più. Non lui, beninteso, l’opera. L’opera si conosce, dell’uomo non si può sapere. È del resto se alcuni scrittori non fossero come sono non avrebbero scritto quel che hanno scritto. Hesse mi è caro perché alcuni suoi libri che lessi da adolescente, assieme ad altri, certo, furono quelli che mi fecero innamorare della letteratura.
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Come disse una volta Mauro Corona gli scrittori non sono compagnoni da frequentare, come invece i musicisti. Beh, qualcosa del genere. Per quanto mi riguarda, per la mia scarsa esperienza di scrittori e musicisti, mi sento di dargli ragione. Mauro Corona ha la capacità di dire e scrivere cose che restano. Anche lui, comunque, non lo frequenterei più di tanto, anche se mi sta simpatico.
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Ma lasciamo la parola ad Hesse. Chi meglio di lui, in fondo, può dire di sé stesso attraverso la sua opera.
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“Ma i nostri uomini e le nostre donne assomigliavano a loro, erano duri, rigidamente chiusi e di poche parole: più erano buoni, meno parlavano. Perciò imparai a guardare gli uomini come alberi o rupi, a riflettere sul loro conto e a rispettarli non meno e ad amarli non più degli abeti taciturni”.
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“Nonostante l’apparente monotonia, nel nostro comune c’erano i buoni e i cattivi, i preminenti e gli umili, i potenti e i deboli, e accanto a parecchie intelligenze una piccola e spassosa raccolta di matti, senza calcolare i cretini”.
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“Lo diceva con parole più mature, eppure molto più infantili, il santo di Assisi. Soltanto allora lo compresi pienamente. Abbracciando, nel suo amore di Dio, tutta la terra, le piante, gli astri, gli animali, i venti e l’acqua, egli superò il Medio Evo e persino Dante, e trovò il linguaggio dell’eternamente umano. Chiamava suoi cari fratelli e sorelle tutte le potenze e i fenomeni della natura: quando più in là con gli anni fu condannato dai medici a farsi cauterizzare la fronte col ferro rovente, pur nell’angoscia della tortura il malato salutava in quel ferro tremendo “il caro frate foco” ”.
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“Incominciando ad amare personalmente la natura, ad ascoltarla come un’amica e compagna di viaggio che parlasse un’altra lingua, la mia malinconia non guarì, ma fu purificata. L’occhio e l’orecchio si fecero più acuti: imparai ad afferrare lievi sfumature e differenze e desiderai udire sempre più chiaro e più da vicino il palpito della vita intera per arrivare forse un giorno a comprenderla e a conquistare il dono di esprimerla con parole di poeta, affinché anche altri potessero avvicinarla e abbeverarsi con miglior comprensione alle fonti di ogni freschezza e di ogni purificazione infantile. Per il momento era soltanto un desiderio, soltanto un sogno… Non sapevo se si sarebbe mai avverato, e mi attenevo al presente donando il mio affetto a tutte le cose visibili e avvezzandomi a siderarne più alcuna con indifferenza o con disprezzo. Non so dire quanto tutto ciò facesse rinverdire e consolasse la mia vita intristita. Nel mondo non v’è nulla di più nobile e di più beatificante che un amore assiduo, senza parole e senza passione, né io mi auguravo alcuna cosa più ardentemente di questa: che alcuni o soltanto due o magari uno di coloro che leggono le mie parole potesse, per mio incitamento, incominciare a conoscere questa arte pura e beata. Certuni la possiedono per natura e la esercitano inconsciamente in tutta la vita: sono i prediletti di Dio, i buoni, i fanciulli tra gli uomini. Altri l’hanno imparata in mezzo ai dolori: non avete mai visto, tra i miseri e gli sciancati, quelli che hanno gli occhi splendenti e pieni di uno spirito superiore? Se non volete ascoltare me e le mie povere parole, andate da loro, da quelli il cui amore disinteressato ha vinto e trasfigurato la sofferenza”.
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“Dalla perfezione che veneravo in certi poveri penitenti sono ancora disperatamente lontano. Ma in tutti questi anni raramente mi sono mancate la fede e la consolazione di sapere la via giusta per arrivare a quella perfezione”.
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“Non posso affermare di averla sempre percorsa, questa via, anzi lungo la strada rimanevo spesso seduto sulle panche e non evitavo certe brutte deviazioni. Due potenti egoistiche tendenze lottavano dentro di me contro il vero amore: ero beone e misantropo. È vero che decurtavo la mia razione di vino, ma dopo qualche settimana il dio seducente mi persuadeva a ributtarmi tra le sue braccia. Non mi è capitato mai di restare in mezzo alla strada o di commettere bravate notturne, perché il vino mi vuol bene e mi tira soltanto fin dove i suoi spiriti possono conversare amichevolmente col mio, ma è un fatto che dopo ogni sbornia i rimorsi mi perseguitavano a lungo. Infine però non potei sottrarre il mio affetto proprio al vino per il quale avevo ereditato da mio padre una forte simpatia. Per molti anni avevo coltivato e fatta mia quell’eredità, sicché stipulai un patto tra serio e faceto fra l’istinto e la coscienza. Accolsi cioè, nel Cantico delle creature del Santo di Assisi, “il mio caro frate vino” “.
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“Molto più grave era l’altro mio difetto. Gli uomini mi davano poca gioia e perciò vivevo da eremita, sempre pronto a disprezzare e a farmi beffe delle cose umane”.
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“Al principio della mia nuova vita non ci pensavo ancora. Mi pareva giusto lasciare che gli uomini se la sbrigassero tra di loro e donare tutta la mia tenerezza e la mia dedizione alla tacita vita della natura. Questa infatti mi empiva da principio tutta l’anima”.
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“Di notte, quando stavo per coricarmi, mi veniva in mente un colle, il limitare d’un bosco, un albero prediletto che da tempo non avevo più visto, e che ora se ne stava al vento notturno, sognando, forse dormendo, e agitava i rami. Che aspetto poteva avere? Allora uscivo di casa, andavo a trovarlo, ne scorgevo al buio la forma indistinta, lo contemplavo con stupefatta tenerezza e me ne riportavo a casa la vaga immagine”.
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“La ricordavo nella conversazione su San Clemente e nella sua viva bellezza davanti al Segantini. Io poi avevo raccolto da anni nel mio cuore un ricco patrimonio d’arte e di natura: ella avrebbe imparato da me a vedere il bello dovunque e io l’avrei circondata di tanta bellezza e verità da farle dimenticare ogni turbamento e da far fiorire le sue facoltà. Strano però, non sentivo affatto quanto quella mia improvvisa trasformazione fosse ridicola. Ecco che da un momento all’altro lo stravagante eremita era diventato un garzone innamorato che sognava nozze felici e l’impianto d’una famiglia”.
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“E soprattutto volevo istillarvi nel cuore il bel mistero dell’amore. Speravo d’insegnarvi a diventare veri fratelli di tutto ciò che vive e ad essere così pieni d’amore da non temere più né il dolore né la morte e da accoglierli, quando venissero, con serietà fraterna come seri fratelli”.
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“Speravo di presentare tutto ciò non già con inni e cantici, ma con schiettezza e verità oggettiva, seriamente e scherzosamente, come chi, ritornato da un viaggio, parla ai compagni di ciò che ha visto là fuori”.
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“Volevo… desideravo… speravo… Parole di suono ridicolo. Ancora aspettavo il giorno in cui tutto quel volere prendesse contorni e diventasse un piano. Se non altro avevo raccolto molte cose e non solo in testa, ma in una quantità di libretti che portavo in tasca nei miei viaggi, empiendone uno ogni due o tre settimane. In breve vi avevo registrato notizie su tutte le cose visibili nel mondo, senza riflessioni e senza collegamenti”.
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“Certo, osservare le nuvole e le onde mi era piaciuto più che studiare gli uomini. Con stupore mi accorsi che l’uomo si distingue dal resto della natura soprattutto per uno strato gelatinoso di menzogna che lo veste e lo protegge. In breve notai lo stesso fenomeno in tutti i miei conoscentí: conseguenza del fatto che ognuno è costretto a rappresentare una determinata figura, mentre nessuno conosce il proprio io. Con strani sentimenti trovai la stessa cosa in me stesso e rinunciai al desiderio di esplorare il cuore del prossimo. Nella maggior parte la cosa più importante era la gelatina. La trovai infatti dappertutto, anche nei bambini che coscientemente o inconsapevoli recitano una parte piuttosto che manifestarsi nella loro spontaneità senza veli”.
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“Se ora ripenso ai miei viaggi e ai tentativi compiuti nella vita, sono lieto e seccato d’aver fatto anche a mie spese la vecchia esperienza che i pesci sono nati per l’acqua, i contadini per la campagna, e che un Camenzind di Nimikon non può a nessun costo diventare un cittadino e uomo di mondo. Ora mi abituo a riconoscere che è giusto così, e sono contento che la mia maldestra caccia alla felicità mondana mi abbia riportato, sia pure nolente, nel vecchio nido fra i monti e il lago, dov’è il mio posto e dove i miei vizi e le mie virtù, ma specialmente i vizi, sono un fenomeno ordinario e tradizionale. Fuori di qui avevo dimenticato il paese natio ed ero stato sul punto di credermi una pianticella rara e degna di nota. Ora invece capisco che in me si agitava lo spirito di Nimikon, e non poteva inserirsi negli usi del mondo. Qui nessuno pensa a vedere in me un originale, e quando considero il mio vecchio babbo o lo zio Konrad mi par di essere un bravo figliolo e un nipote in regola”.