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Incipit:
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“Il signor Tench uscì a cercare il suo cilindro di etere: nell’abbagliante sole messicano e nella polvere scolorante. Alcuni avvoltoi guardarono giù dal tetto con vile indifferenza: non era ancora una carogna. Un tenue senso di ribellione si destò nel cuore del signor Tench, ed egli strappò con forza un pezzo di cemento dal margine della strada, spezzandosi le unghie, poi lo scagliò debolmente contro di essi. Uno, allora, si alzò e volò attraverso la città, sbattendo le ali: sopra la minuscola plaza, sopra il busto di un ex-presidente, ex-generale, ex-uomo vivente che fosse, e sopra due banchi dove si vendeva l’acqua minerale, verso il fiume e il mare. Non avrebbe trovato nulla laggiù; da quella parte, alle carogne ci pensavano i pescicani. Il signor Tench proseguì attraverso la plaza”.
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Non conoscevo questo scrittore di successo. Henry Graham Greene (1904 – 1991), inglese, fu scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, agente segreto e critico letterario. Laureato in storia, giornalista per il Times, affetto da disturbi psitici, sposato con diverse relazioni extraconiugali. Uno scrittore cattolico, dicono.
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Questo romanzo è di una folgorante, sublime, miserabile bellezza. L’edizione della foto è stata tradotta da Vittorini, la lingua usata è notevole. Pubblicato nel 1940, tradotto in Italia per la prima volta nel 1945, risulta ancora vivo, un romanzo compiutamente postmoderno, per temi, lingua e struttura.
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Greene ha, almeno in questo romanzo, il dono dei narratori americani. Utilizza una lingua che il lettore percepisce come la lingua dell’uomo della strada, eppure è una lingua raffinata, pur nella sua apparente semplicità. Inoltre, ancora come i grandi narratori americani, è un narratore talentuoso, si percepisce il piacere del raccontare, il taglio delle scene non è mai banale, la composizione è abilmente orchestrata.
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In un Messico storico, reale, conosciuto di persona da Greene, la rivoluzione vuole che il cattolicesimo venga estirpato, che tutti i preti vengano uccisi. La terra infuocata, assetata, diventa potente metafora cristiana, quasi evangelica.
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È la storia di un prete ubriacone, forse l’ultimo rimasto, distrutto, dalla coscienza annientata, che ha portato il peccato fino a concepire una bambina con una donna, ultimo tra gli ultimi. È la storia dello stesso prete che diventa martire, che cerca la “giusta” condanna, la “giusta” morte. Che però è ancora prete, con tutto il suo potere e la sua gloria, nei momenti in cui viene chiamato a fare ciò che la sua vocazione lo chiama a fare. Per gli ultimi, i deboli. E i morenti.
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“E venne: una cagna di razza incrociata che si trascinava attraverso il cortile; un brutto essere con le orecchie piegate, che guaiva, trascinando una zampa ferita o spezzata. Aveva qualche cosa alla schiena. Camminava molto lentamente, egli poteva veder le costole: era ovvio che la povera bestia non aveva mangiato per giorni e giorni; era stata abbandonata.
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A differenza di lui, essa conservava una specie di speranza. La speranza era un istinto che solo la ragionante mente umana poteva uccidere. Un animale non conosceva mai la disperazione”.