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Sto leggendo l’opera di McCarthy dall’inizio. Questo è il suo secondo romanzo, dopo “Il guardiano del frutteto” del 1965. Fu pubblicato nel 1968.
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Non so se dire prima che anche questo romanzo ha un tono piuttosto cupo. Sì, ancora più del primo. Oppure che, di questi due romanzi, più che la storia mi rimarrà l’atmosfera. Ed è un complimento.
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Vabbè, partiamo dal tono cupo. Se già ne “Il guardiano del frutteto” McCarthy aveva cominciato a muoversi in una dimensione perifica, di una periferia non solo geografica degli USA, ma anche della vita, di ciò che si suppone essere la vita sotto i riflettori così come ci è stata raccontata dalle narrazioni tradizionali, qui la luce si affievolisce ancora di più.
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Non c’erano eroi, e neanche antieroi, nel primo romanzo. C’era gente che si muoveva, che viveva, senza grossi alti e bassi. Con il solo piccolo frigolio d’interesse prodotto della vita del principale protagonista, contrabbandiere di whiskey. C’era anche un morto, sì. Ma che volete, poteva succedere. Tutto questo, sia chiaro, raccontato divinamente, per niente noiso.
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Se l’ambientazione geografica agricola, selvatica, boschiva, periferica del primo romanzo è la stessa, qui l’umanità raccontata è ancora senza eroi né antieroi, ma è un’umanita forse ancora più miserevole. Non cattiva. Povera, però, ed ignorante. Beh, oddio. Qualcuno di cattivo c’è.
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Questo secondo romanzo mi sempra temporalmente ambientato un po’ prima dell’altro. McCarthy non dà riferimenti temporali precisi, e fa bene. Direi che ci troviamo attorno ai primi decenni del Novecento.
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Al solito, ovvero come nel primo ed altri romanzi, lo sguardo di McCarthy non è giudicante, ma non è nemmeno empatico. Le vicende scorrono davanti alla nostra immaginazione con un’implacabile fluidità, così come verosimilmente sarebbero potute accadere.
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I protagonisti sono due fratelli, forse tra i venti e i trenta’anni. La loro vicenda comincia male, e non migliora. Non mi addentro nella storia, a mio parere non è importante. Ciò che resta, almeno a me, come dicevo, è l’atmosfera.
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Dal punto di vista stilistico le descrizioni sono qui leggermente più scarne di quelle del primo romanzo, ma sono ancora lontane dalla totale scarnificazione descrittiva de “La strada”.
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La conduzione della narrazione invece è decisamente più tradizionale. Non ci sono più, se non raramente, passaggi in cui il lettore deve chiedersi cosa esattamente stia succedendo, o di chi si sita parlando.
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Voglio ancora dire qualcosa sull’inizio, e sulla fine. L’inizio, così come l’andamento della storia, mi ha ricordato “La strada”. C’è un cammino. Ci sono dei cammini. E c’è desolazione, come a dire il vero c’era anche, almeno tra le righe, nel primo romanzo.
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“Il sole del tardo pomeriggio allungò le loro ombre sul cladio e sul falasco bruciato quando spuntarono in cima al dirupo e avanzarono lentamente in fila indiana, molto in alto rispetto al fiume ma in qualche modo altrattenato inesorabili”.
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Qualcuno accosta questo romanzo all’esistenzialismo. Io l’ho letto senza conoscere quale sia il background interpretativo dell’opera di Cormac. E certo quello che racconta è un mondo senza dei né virtù, solo qualche vizio e vita come normalmente a volte accade. Beh, certo, se si pensa alla Nausea di Sartre, a Beckett, in fondo… Ma è davvero questo lo spirito dell’esistenzialismo? Io non credo. Ma arebbe un altro discorso.
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Potrebbe forse invece essere fruttuoso un confronto con l’opera di William Faulkner. Ma questo lo dico solo a mo’ di appunto.
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E poi la fine.
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“Tornando indietro da dove era venuto incontrò di nuovo il cieco, che procedeva nel crepuscolo picchiando a terra il bastone. Si fermò sul ciglio della strada, del tutto immobile, ma nel passargli davanti il cieco girò la testa e gli rivolse il suo sorriso da cieco. Holme restò a guardarlo finché non lo vide più. Si chiese dove stesse andando il cieco, e se sapesse dove finiva la strada. A un cieco qualcuno avrebbe dovuto ben dirlo, prima di mandarlo da quella parte”.
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E basta. Non c’è altro. La vita continua. Come sempre. A volte, se non altro, si ha la fortuna di incontrare le parole di uno scrittore.