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“Il guardiano del frutteto” è il primo romanzo dell’ormai celebre McCarthy, autore di romanzi da cui come sappiamo sono stati tratti anche film di successo, come “Non è un paese per vecchi”.
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Ho voluto leggerlo perché “La strada” è uno tra i romanzi del secolo in corso che preferisco. Volevo approfondire questo autore. Prima di motivare perché ritenga quest’opera un lavoro decisamente interessante, racconto brevemente dell’uomo.
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Cormac McCarthy (1933-2023) fu il terzo dei sei figli di un avvocato di successo. Crebbe in Tennessee. Qui iniziò l’Università, senza finirla, studiò scrittura creativa. Poi passò qualche anno nell’aereonautica.
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Lavorando come meccanico part-time finì “Il guardiano del frutteto”, glielo pubblicò la Random House. Ebbe la fortuna di essere preso in carico da un eccellente editor, che lo seguirà a lungo, e che ebbe tra i suoi rampolli tra gli altri anche William Faulkner.
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Dopo il buon successo di critica del primo romanzo, grazie ad alcune borse di studio, sopravvisse per un po’ viaggiando. Scrivendo.
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Il successo di pubblico arrivò piuttosto tardi. Non produsse molte opere. Si sposò alcune volte ed ebbe alcuni figli. Questo, più o meno, è quel che si può dedurre da quel poco che si può trovare in rete.
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Ho affrontato “Il guardiano del frutteto”, come mi piace, senza saperne nulla.
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L’ho trovato un po’ troppo descrittivo, per i miei gusti, comparato a “La strada”. Qualcuno potrebbe invece trovare le parti descrittive il vero punto di forza del romanzo. E non avrebbe tutti i torti. Sono stato invece veramente sorpreso dalla struttura narrativa, e anche dal fatto che un’opera prima così originale sia stata pubblicata.
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Mi sono poi chiesto che tipo di romanzi si pubblicassero al tempo, e il panorama era piuttosto piacevole, a mio gusto. Può essere che romanzi che oggi sarebbero forse da ritenersi editorialmente coraggiosi, o economicamente pericolosi, non fossero al tempo così rari.
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Tra i bestseller pubblicati negli anni Sessanta negli Usa, tra i bestseller, ripeto, troviamo infatti autori come Saul Bellow, Chaim Potok, Philip Roth, J.D. Salinger, John Steinbeck, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, William Faulkner.
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Il romanzo è montato in ordine cronologico, con alcuni pezzi in corsivo che non si capisce bene dove collocare temporalmente, e spesso neanche a quale personaggio riferire.
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In generale, anche nei vari capitoletti che si susseguono spesso non è immediato capire a quale personaggio si riferiscano. Sempre che non ne vengano introdotti di nuovi.
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Non si tratta comunque di un romanzo incomprensibile. Ruota attorno a tre personaggi, legati da un cadavere, qualcuno dice, ma in realtà a me pare che il legame non sia così importante. Ciò che emerge, da questo caleidoscopio di descrizioni e situazioni, è soprattutto, direi, una certa atmosfera.
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Una provincia americana molto poco hollywoodiana, molto profonda, molto marginale, rispetto a narrazioni più comuni.
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Bisognerebbe a mio parere riconoscere alla letteratura americana il chiaro merito di aver saputo raccontare anche i “normali”, i “perdenti”, i “marginali”, che come dovremmo sapere, purtroppo, sono la maggioranza. Sempre che i “vincenti”, certo, esistano. Ma questo sarebbe un altro discorso.
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De “Il guardiano del frutteto” direi che mi sono rimaste immagini di boschi, natura, animali, persone un po’, o molto selvatiche. Che sanno comunque di normalità, una normalità non molto raccontata. O forse una normalità che a noi non piace vedere. Il taglio, la prospettiva, è decisamente autoriale.
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Ecco, questa normalità autoriale è il primo aspetto del romanzo che mi è molto piaciuto. Il secondo è legato al tono. Non tanto al punto di vista, quanto al “punto di sentire”, si potrebbe forse dire, dell’autore. Dell’autore implicito, direbbero ancora più precisamente quelli bravi.
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È lo stesso tono che si trova ne “La strada”. Sono anche le stesse descrizioni presenti nel capolavoro di molti anni successivo, in fondo, scritte da un io molto più giovane. Anche se là molto più scarne, certo, e l’immaginario completamente diverso. Anche qui, come ne “La strada”, non troviamo un’empatia traboccante. Piuttosto una sorta di sospesa, comprensiva, ben disposta sospensione del giudizio.
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Questo contrabbandiere che si aggira tra le pagine, ad esempio, sembra tutto sommato un personaggio positivo. Quello un po’ più fascinoso, forse per certi aspetti anche più buono di certi poliziotti. Ma non ci sono prese di posizione su questo e, in fondo, neanche su altro.
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Marion Sylder spicca tra gli abitudinari abitanti del luogo perché le sue vicende, anche se solo vagamente, sono più avventurose.
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Certa arte forse non vuole dire, non vuole descrivere, non vuole sancire. Vuole solo ombreggiare, sussurrare. Aleggiare, come polvere trafitta da un raggio di luce. Nei boschi del profondo Tennessee, tra le due Guerre, durante il protezionismo. È lì, per chi volesse, che si può ancora incontrare lo spettro del primo McCharty.