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Prima di esprimere un parere personale sull’opera di Ligabue, sui quadri che ho visto, voglio precisare che non sono uno storico dell’arte, né un pittore, non ho nessuna preparazione in merito. Ho qualche interesse verso le varie forme di espressione pittorica che si sono succedute nel corso dell’evoluzione umana, mi pare che esprimano, in maniera profonda, una maniera di stare al mondo. Quando si passa dal realismo all’astrattismo, ad esempio, è la percezione della realtà che cambia (quella culturale, testimone, lente e specchio, in qualche modo, della vita stessa). Mi piace anche il lato prettamente estetico, la creazione demiurgica di nuove forme, di strutture che sono, ancora più profondamente, espressioni “artistiche”, creazioni estetiche ed intellettuali insieme.
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Non intendo dunque esprimere un giudizio artistico su Ligabue, solo alcune impressioni. Da una parte estetiche, dall’altra, non so, si potrebbero forse dire psicologiche, ciò che colgo di un nucleo espressivo umano, la sua essenza, mi verrebbe da dire, espressa sotto forma di pittura.
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Dal punto di vista artistico, devo essere onesto, le forme e la ricerca espressiva di Ligabue mi son sembrate lontane dall’eccellenza. Un talentuoso autodidatta, tutt’al più, se si tiene conto che era un “matto”. Le sue forme risultano sproporzionate, i differenti piani prospettici delle figure sembrano sovrapposti in maniera troppo elementare, non c’è uno sviluppo e una ricerca formale. Certo questi elementi fanno parte sia dell’espressionismo che del fauvismo che dell’arte naif, che Ligabue conosceva. Ma, vedendo i suoi quadri dal vivo, l’impressione, sinceramente, è stata quella di un lavoro approssimativo. Non certo l’opera d’un maestro, degna d’un museo.
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Eppure, come già rilevato da molti, è impossibile non riconoscere nella sua opera una grande autenticità (oltre che a una certa riconoscibilità, un suo modo). Potrei dire Verità. Non è qualcosa che appartiene alla forma, è qualcosa che viene espresso attraverso la forma. I suoi animali, le sue fiere, potrebbero effettivamente essere l’espressione della sua lotta contro la vita, contro il mondo, come ipotizzato da alcuni. E che forza, che luce, che colori nei suoi dipinti. Che coraggio.
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Mi pare che, per avvicinarsi alla sua arte, bisogna un po’ conoscere la sua vita (a questo proposito consiglio la visione del film “Volevo nascondermi” del 2020 di Giorgio Diritti). In genere non amo sapere troppo sugli autori, preferisco confrontarmi direttamente con l’opera. Ma, nel suo caso, ciò che apprezzo è la vita che traspare dalla sua arte. Essa appare, ben visibile, chiara ed immediata, già dipinta, nei suoi autoritratti, di una sincerità commovente.
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C’è forza in molte sue opere, c’è la sua anima (lo dico da non credente), c’è la sua malattia, c’è lui stesso a confronto con il suo mondo. Una testimonianza estetica meravigliosa. C’è, forse, quello che è per me il significato stesso dell’arte. Il suo nucleo più profondo.
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Per coglierlo, è forse nel suo caso necessario, come dicevo, ripercorrere almeno brevemente la sua vita. L’esistenza di Antonio Ligabue (vero nome Laccabue) fu a dir poco travagliata. Nacque nel 1899 a Zurigo, in Svizzera, dove sua madre era emigrata e faceva l’operaia. Non si conosce il padre. Venne registrato col cognome della madre, Maria Elisabetta Costa, allora ventottenne.
La donna conobbe un altro emigrante italiano, Bonfiglio Laccabue, nativo del comune di Gualtieri in Emilia, anch’egli operaio, col quale si sposò nel 1901. Antonio preferiva essere chiamato Ligabue, per odio verso il padre che considerava colpevole della morte della madre.
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Già da piccolo, a causa della povertà, venne affidato a una coppia senza figli di svizzeri tedeschi, che l’artista considerò i suoi veri genitori. Non capitò però meglio, la nuova famiglia era costretta a continui spostamenti a causa della povertà e del lavoro precario.
Fin da giovane fu affetto da problemi di salute, rachitismo e carenza vitaminica, che ne pregiudicarono lo sviluppo fisico, psitico e mentale. A causa del carattere difficile dovette cambiare diverse scuole. Lavorò saltuariamente come bracciante agricolo.
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Nel 1917, dopo una violenta crisi nervosa, fu ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico. Continuò a peregrinare lavorando come contadino o accudendo animali.
Nel 1919, dopo aver aggredito la madre adottiva durante una lite, venne espulso dalla Svizzera. Giunse a Gualtieri, luogo d’origine del padre adottivo. Non sapeva una parola d’italiano, visse grazie all’aiuto dell’Ospizio di mendicità Carri.
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Continuò a praticare una vita nomade, lavorando saltuariamente come manovale o bracciante. Cominciò a dipingere.
Nel 1928 incontrò l’uomo che probabilmente gli cambiò la vita, o per lo meno gli permise di arrivare a futura gloria. Lo scultore Renato Marino Mazzacurati, che gli insegnò l’uso dei colori a olio. Ligabue si dedicò completamente alla pittura e alla scultura.
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Nel 1937 fu ricoverato nell’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, a causa dei suoi stati maniaco-depressivi, che sfociavano talvolta in attacchi violenti autolesionistici o contro altri; in quest’ospedale tornerà altre due volte, nel 1940 e nel 1945.
Dopo la sua seconda permanenza in ospedale, venne fatto dimettere dallo scultore Andrea Mozzali, che lo ospitò a casa sua a Guastalla.
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Durante la seconda guerra mondiale fece da interprete alle truppe tedesche. Nel 1945, per aver percosso con una bottiglia un militare tedesco, dovette rientrare un’altra e ultima volta all’ospedale di Reggio Emilia. Uscito dall’ospedale, soggiornò alternativamente presso il ricovero di mendicità Carri di Gualtieri o in casa di amici.
Sul finire degli anni quaranta andò crescendo l’interesse della critica nei confronti delle sue opere. Negli anni cinquanta ebbe inizio il periodo più prolifico per l’artista e, dopo la sua presenza in mostre collettive, presero avvio anche le prime mostre personali.
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Sono diversi i temi ricorrenti nelle opere di Ligabue. Gli autoritratti, attraverso i quali l’artista esprime la sua condizione sofferta e il proprio disagio. C’è il mondo naturale e la vita delle campagne. E ci sono poi i dipinti probabilmente più conosciuti, quelli con le belve feroci, con le quali l’artista peraltro si identificava, tanto da assumere i loro atteggiamenti prima di dipingerle (si metteva davanti allo specchio e imitava i loro versi e le loro movenze prima di mettersi al lavoro).
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Del rapporto con gli animali parlò anche Mazzacurati, che assistette in prima persona a un “incontro” tra Ligabue e le bestie di una fattoria, fatto tutt’altro che insolito (Ligabue visse a lungo nei boschi ed ebbe per molto tempo la sola compagnia degli animali che vivevano lungo il Po. Rimase un selvatico per tutta la vita). “Provava per loro un amore fortissimo”, scrisse Mazzacurati nel 1965, “e su tutti esercitava uno straordinario potere. Ricordo che, in seguito, quando si stabilì nella fattoria vicino alla mia casa, bastava che facesse degli strani gesti con le mani e le braccia ed emettesse con la bocca un leggero sibilo, perché tutti gli animali, come impazziti, gli corressero intorno. I cani scondinzolavano, miagolavano i gatti, i piccioni roteavano intorno alla sua testa, persino le galline gli chiocciavano vicino ai piedi: era uno spettacolo incredibile, mistico e arcano al tempo stesso”.
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Nel 1962 fu colpito da una emiparesi e, dopo essere stato curato in diversi ospedali, trovò nuovamente ospitalità presso il ricovero Carri di Gualtieri, dove morì nel 1965.
La sua fu una vicenda umana segnata da disgrazie, sradicamenti, solitudine, fame e miseria. In paese era soprannominato, nel dialetto locale, Al Matt (il matto) o Al tedesch (il tedesco).
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«Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore»
(Epitaffio sulla sua tomba a Gualtieri)