Introduzione alla Scuola di Francoforte

La Scuola di Francoforte è stata una scuola sociologico-filosofica di orientamento neo-marxista. Si chiama in questo modo proprio perché il primo nucleo, formato da intellettuali tedeschi di origine ebraica, fondò nel 1923 l’Istituto per la ricerca sociale all’interno dell’Università Joahnn Wolfgang Goethe a Francoforte sul Meno, in Germania.

Nel discorso ufficiale in cui assunse la carica di direttore, nel 1924, Grünberg affermò che l’Istituto si prefiggeva il compito di comprendere il mondo e, attraverso tale comprensione, di cambiarlo. All’avvento del nazismo il gruppo si trasferì dapprima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York, dove fu accolto dalla Columbia University. Dopo la seconda guerra mondiale alcuni esponenti, tra cui Adorno, Horkheimer e Pollock, rifondarono l’istituto a Francoforte.

Tra i principali esponenti ricordiamo Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Friedrich Pollock, Leo Lowenthal, Erich Fromm e Jürgen Habermas. La scuola raccolse brillanti studiosi di diverse discipline e ambiti culturali. Alcuni loro testi divennero manifesti filosofici della Nuova Sinistra e influenzarono il Movimento del ’68. Sebbene abbia ricevuto molte critiche, ed alcune teorie espresse siano state decisamente sorpassate, ha avuto a mio parere il grosso merito di cercare di mettere assieme prospettive teoriche diverse per studiare e criticare la società a lei contemporanea, da quelle filosofiche a quelle economiche a quelle sociologiche a quelle psicoanalitiche, evidenziando alcune punti critici dell’allora società industriale, alcuni dei quali possono probabilmente essere utili ancora oggi per leggere la nostra società post-moderna.

Tra i temi centrali, che peraltro sembrano più che mai attuali, vi furono: l’equiparazione del fascismo, stalinismo e società unidimensionale (la società industriale avanzata, dominata dalle regole ferree dell’ ‘apparato’ e plasmata dall’industria culturale, cioè dalla mercificazione di tutta la vita spirituale); la critica della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche, che comportavano inevitabilmente il dominio dell’uomo sull’uomo (a differenza di quanto aveva pensato il marxismo classico, che aveva ritenuto scienza e tecnologia in qualche misura neutrali, usabili, quindi, sia dalla borghesia sia dal proletariato – per fini ovviamente diversi, anzi opposti); l’esigenza di una liberazione ‘totale’ che, per essere davvero tale, avrebbe dovuto passare prima di tutto attraverso una completa rigenerazione della persona umana (di qui gli studi sulla ‘personalità autoritaria’, e il tentativo di rinnovare e di completare il marxismo con tematiche psicoanalitiche); la constatazione del venir meno del potenziale rivoluzionario della classe operaia nei paesi più sviluppati, e l’individuazione dei nuovi soggetti rivoluzionari negli intellettuali non conformisti, ovvero non addomesticati dal ‘sistema’, negli emarginati, negli oppressi per motivi razziali, nei popoli del terzo mondo.

Horkheimer divenne direttore dell’Istituto nel 1929, facendo compiere un salto di qualità alle ricerche. In particolare nella sua impostazione c’è una rivendicazione della dialettica, così come era stata utilizzata da Marx riprendendola da Hegel. Respingendo la matrice mitologica idealistica, e sostituendola con la conoscenza (o il tentativo di conoscenza) dei nessi reali, cioè con la dialettica fra le diverse forze umane (che si sviluppano in rapporto con la natura) e le forme invecchiate di società.

La scienza non viene vista soltanto (secondo il punto di vista marxista tradizionale) come una componente essenziale delle forze produttive, limitata e soffocata nel suo sviluppo e nella sua creatività, dai rapporti capitalistici di produzione, e asservita ai fini del profitto individuale; bensì viene vista come un prodotto del capitalismo, che ne determina sia i metodi che la struttura (impostazione già svolta da Lukács in Storia e coscienza di classe).

Un altro aspetto caratteristico di Horkheimer e della Scuola fu il ruolo conferito alla psicologia, ed in particolare alla psicoanalisi, ai fini della comprensione del processo storico. Poiché, dice Horkheimer, la storia si struttura secondi i diversi modi in cui si compie il processo vitale della società umana, non c’è dubbio che le categorie storicamente fondamentali sono quelle economiche. Tuttavia gli individui non sono mere maschere dei rapporti economici, essi sono anche dotati di coscienza, hanno capacità d’iniziativa. La combinazione tra economia sociale e psiche individuale (o sociale) può arrivare ad una maggiore comprensione delle dinamiche in gioco.

In questo ambito sono stati notevoli i lavori dello psicoanalista Erich Fromm, che ha tentato di combinare psicoanalisi e marxismo ai fini di una psicologia sociale. La teoria psicoanalitica di Freud veniva interpretata da Fromm, anche se con qualche distinguo, come biologico-materialistica e storica a un tempo: materialistica, perché il suo punto di partenza erano gli istinti, in primo luogo quelli di conservazione, che mantengono un primato fondamentale, e poi dagli istinti sessuali (in senso lato), i quali ugualmente non possono rimanere insoddisfatti; e tuttavia – e qui si manifesterebbe il carattere storico – questo secondo tipo può essere “dislocabile”, “trasferibile”, può essere soddisfatto sia con rappresentazioni ideologiche, sia con determinati comportamenti sociali.

Come scriveva lo stesso Fromm: la psicologia sociale analitica vuol dire dunque: comprendere la struttura istintuale, l’atteggiamento libidico, in gran parte inconscio, di un gruppo in base alla sua stessa struttura socio-economica.

Individua poi nella famiglia il “luogo” di mediazioni tra psiche e strutture sociali: la struttura globale della famiglia, tutte le tipiche relazioni emozionali all’interno di essa, tutti gli ideali educativi da essa rappresentati sono essi stessi condizionati dallo sfondo sociale e di classe della famiglia, dalla struttura sociale, da cui essa trae le sue origini.

Di Freud, però, non accettava lo sviluppo teorico sulle pulsioni aggressive e gli istinti distruttivi. La vita della comunità, forse utopisticamente proposta da Marx e dalla Scuola, infatti, non sarebbe potuta sussistere, teoricamente, su tali basi.

Un altro esponente, Pollock, in una serie di studi apparsi negli anni Trenta, ritiene che il sistema capitalistico sia destinato, se non a crollare, a deprimersi. Secondo questo autore nel capitalismo monopolistico, a differenza di quello concorrenziale, si verrebbe a creare un forte intreccio tra economia e politica, particolarmente nel sostegno diretto dello Stato alle imprese (siamo all’indomani della crisi del ’29), facendo ad esempio in modo che le imprese incamerino i profitti e scarichino le perdite sui contribuenti. Inoltre, aumentando costantemente la produttività del lavoro, si verrebbe a creare una spirale infernale in cui a un certo punto diventerebbe impossibile vendere le merci al loro valore.

L’avvento del totalitarsimo nazi-fascista avrebbe espresso la quintessenza del capitalismo maturo o ‘controllato’, in cui si annientava la resistenza della classe operaia, sia attraverso i metodi del condizionamento di massa che attraverso la disoccupazione. Da questo punto di vista Pollock non faceva molte distinzioni tra Germania e Stati Uniti. Dal controllo di mercato si passava a un controllo diretto.

Marcuse riprese questi temi sostenendo, non senza qualche difficoltà, che lo stato autoritario era il figlio legittimo del liberalismo, ne rappresentava anzi la logica conclusione.

In altri testi, come nel saggio Per la critica dell’edonismo, sostiene che i contrassegni fondamentali di una società veramente libera non saranno tanto la socializzazione dei mezzi di produzione, pianificazione, regolazione e razionalizzazione, perché in ciò sono contenuti ancora elementi di costrizione imposti dall’alto. La società nuova dovrà invece caratterizzarsi, invece, per la realizzazione integrale dell’edonismo, per l’appagamento di tutti i bisogni, per il godimento della felicità congiunta al piacere. Ma ciò sarà possibile solo se la società muterà profondamente, se lavoro, scienza, tecnica, diverranno ‘un’altra cosa’. Quale cosa non è facile dire; in ogni caso la rivoluzione dovrà essere ‘totale’, e ‘totale’ dovrà essere la trasformazione dell’uomo.

In un altro saggio del 1941, che per alcuni aspetti anticipa il famoso Uomo a una dimensione, Marcuse discute degli effetti della “moderna” tecnologia. La meccanizzazione e la razionalizzazione dei processi produttivi costrinsero i concorrenti più deboli a subire il predominio dei grandi colossi industriali. Questa nuova situazione trasformò la razionalità individualistica in razionalità tecnologica, e plasmò la società a tutti i suoi livelli. Ne nacque il tipo di razionalità che predomina ancora oggi, per cui, ad esempio:

L’individuo efficiente è quello il cui rendimento è un’azione solo nella misura in cui è la reazione più appropriata alle oggettive pretese del sistema e la sua libertà si limita alla selezione dei mezzi più adeguati per raggiungere una meta che lui non ha stabilito. Mentre la realizzazione individuale è indipendente dal riconoscimento e si compie nel lavoro, l’efficienza è un rendimento ricompensato e si compie solo nel valore che ha per il sistema.

Marcuse fa l’esempio dell’autostrada: essa dà forma e organizzazione all’ambiente esterno. Economia, tecnica, bisogni umani e natura si fondono e si armonizzano in un meccanismo razionale e conveniente. Chi ne seguirà le prescrizioni, si troverà perfettamente a suo agio, subordinando la propria spontaneità all’anonima intelligenza che saggiamente ha ordinato tutto per lui.

Tutto è perfettamente razionale. Tutto è perfettamente ragionevole. Qualunque forma di protesta non ha senso, e l’individuo che rivendichi la propria libertà d’azione sarebbe preso per pazzo. Manovrando la macchina, l’uomo impara che l’obbedienza alle direttive per il funzionamento della macchina medesima è il solo modo di ottenere i risultati desiderati.

Su questa stessa linea si sviluppa il celebre Dialettica dell’illuminismo di Horkheimier e Adorno. Essa ha come tema principale l’autodistruzione dell’Illuminismo. La pretesa dell’uomo di accrescere sempre più il proprio dominio sulla natura si rovescia necessariamente nel suo contrario, nell’asservimento dell’uomo e nella sua degradazione.

E ancora, sempre dei due autori, L’eclisse della ragione, un testo del ‘44 pubblicato nel ‘47. L’uomo, cercando di sottomettere la natura, ha creato un sistema di dominio capillare e spietato dell’uomo sull’uomo. La comunità umana avrebbe cessato di essere comunità e sarebbe diventata società. Processo di atomizzazione e processo di massificazione sarebbero proceduti di pari passo. La monade, simbolo settecentesco dell’individuo economico atomistico caratteristico della società borghese, è diventata un tipo sociale. Il perseguimento dell’interesse personale avrebbe contrapposto le monadi l’una all’altra, ma allo stesso tempo le avrebbe rese sempre più simili l’una all’altra.

In quanto la società industriale avanzata è fondata, per un verso, sull’interesse egoistico e sull’individualismo più sfrenato e, per un altro verso, sull’uniformità e sulla massificazione dei singoli, mentre l’ ‘apparato’ industriale e burocratico, controllato dalle corporazioni e dai gruppi più forti, diventa sempre più esteso e potente, è inevitabile che tale società covi nel proprio seno la peste del fascismo.

Walter Benjamin riflette invece, come titola un suo saggio, su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Secondo lui l’opera d’arte, nella modernità, avrebbe perso la sua aurea. Il suo valore autentico si troverebbe nella sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso. Questo punto di vista ha influenzato la Scuola, tanto che Horkhemier, ad esempio, arriva a scrivere:

Con la progressiva trasformazione della vita privata in tempo libero e del tempo libero in attività insulse, completamente controllate, nei piaceri dello stadio e del cinema, del best-seller e della radio, scompare anche l’interiorità.

Secondo l’impostazione teorica di questa Scuola, che dovrebbe essere ormai chiara, i mass media, ad esempio, non sono veicoli neutri, non solo trasmettono l’ideologia, ma sono essi stessi ideologia, indipendentemente dal particolare contenuto che trasmettono.

Secondo Horkheimer, però, a differenza di Benjamin, non solo l’opera d’arte non scompare, ma preserva quell’utopia che è sfuggita alla religione. L’arte, secondo lui, sopravvive in quelle opere che esprimono l’abisso che si apre tra l’individuo monadico e il suo ambiente barbarico, come nella prosa di Joyce o in quadri come Guernica.

In quanto queste opere inospitali tengono fede all’individuo contro l’infamia dell’esistente, esse preservano il contenuto autentico della grande arte del passato, sono molto più profondamente affini alle madonne di Raffaello e alle opere di Mozart di tutto ciò che oggi ripete pappagallescamente la loro armonia, in un’epoca in cui la spensieratezza si è trasformata in maschera della follia e i volti tristi della follia sono diventati l’unico indizio di speranza.

Per concludere, Giuseppe Bedeschi, in questa valido e chiaro riassunto di alcuni dei temi e delle opere prodotte dalla Scuola di Francoforte, ne dà una valutazione tutto sommata negativa ed utopistica, nel senso che “la stessa revisione del marxismo operata dalla Scuola di Francoforte, pur muovendo da constatazioni giuste e realistiche, non dà alcun apprezzabile contributo al progresso delle scienze sociali, ispirandosi alle componenti più utopistiche e irrealistiche del marxismo, formulando un rifiuto globale, o grande rifiuto, della società contemporanea. Essa postula infatti il sorgere di una comunità radicalmente nuova, emancipata da qualunque autorità, da qualunque condizionamento materiale e sociale, da qualunque forma non solo di dominio, ma anche di organizzazione”.

Come detto all’inizio, però, alcune delle idee e delle teorie espresse da questa Scuola mi paiono possano restare come indicazioni valide di percorso o, almeno, riflessione.

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